di Alberto Burgio
Si ha più che mai, di questi tempi, l'impressione che avesse ragione Antonio Gramsci nell'indicare nella «concezione fatalistica e meccanica della storia» un preciso sintomo di scarsa autonomia intellettuale. Oggi, di fronte alla drammaticità della crisi e alle preoccupazioni che essa genera, la «pigrizia fatalistica» (sempre Gramsci) domina. Prevale la tendenza a credere che quanto accade sia effetto di forze superiori e incoercibili, il verdetto di un destino avverso.
E che, per contro, solo un destino benigno (o «un dio») possa salvarci. Contro questo atteggiamento rinunciatario, figlio di una propensione al pensiero magico dura a morire, il pensiero critico può (deve) giocare una partita cruciale. Non è difficile mostrare come le sorti della sinistra, non solo in Italia, dipendano in larga misura dalla capacità di compiere e diffondere una corretta lettura delle cause della crisi in tutte le sue dimensioni (economica e sociale, politica, «intellettuale e morale»). Se sarà in grado di sradicare il diffuso fatalismo e la rassegnazione che ne consegue, la sinistra svolgerà un ruolo nella prossima fase del conflitto, che si annuncia, già dal prossimo autunno, di estrema asprezza. Altrimenti, contribuirà validamente alla propria sostanziale estinzione.
Questa crisi ha una specificità, che tende a passare inosservata. Come tutte le crisi sistemiche del capitalismo (effetto dell'interazione tra crisi da sproporzione, da tesaurizzazione e di realizzazione), essa si verifica, e semina disoccupazione e miseria, senza che sia avvenuta alcuna catastrofe. Al contrario: il mondo - a cominciare dalle metropoli capitalistiche - è in crisi nel momento in cui è sommerso dalle merci che produce «in eccesso». La povertà dilaga mentre la ricchezza sovrabbonda, grazie a un impetuoso sviluppo tecnologico e alla conseguente forte crescita della produttività del capitale (se mai la si potesse misurare). Senonché - come Giovanni Mazzetti non si stanca da anni di segnalare - nessuno o quasi sembra accorgersi e chieder conto di questa lampante contraddizione: la crisi appare, appunto, come una maledizione, una punizione divina, o come lo scherzo di un destino «cinico e baro».
Marx aveva ragione
Come stiano le cose in realtà, chi ha letto Marx e non lo abbia gettato alle ortiche lo sa, e questa contraddizione è in grado di spiegarla senza troppe difficoltà rovesciando la premessa, con un apparente paradosso. La crisi c'è non già nonostante la ricchezza, bensì per causa sua, data la forma sociale in cui essa oggi è prodotta. Adottando questa prospettiva emerge con chiarezza la radice strutturale (economica) della crisi e la sua dinamica politica. Gli Stati e i governi presidiano il modo di produzione capitalistico (e il sistema di rapporti sociali che su di esso si basa) proteggendone la funzione essenziale: la produzione di profitti e rendite. Questa difesa (attuata oggi principalmente per mezzo dello strumento finanziario) ha luogo, come sempre, tramite la regolazione dell'impiego delle forze produttive sociali (capitale, saperi e lavoro vivo), che non deve eccedere la capacità del capitale di valorizzarsi. Qui emerge il carattere irriducibilmente anti-sociale della funzione oggi svolta dal capitale privato.
Il fatto che esso si valorizzi in funzione inversa alla propria composizione organica (cioè tanto più, quanto meno il capitale costante contribuisce ad ogni unità di prodotto) fa sì che l'aumento della produttività (che per la società è un valore, poiché riduce il lavoro necessario) sia invece per il capitale un costo improduttivo e una minaccia (in quanto determina la riduzione del saggio di profitto). Da qui (a conferma della fondatezza della teoria marxiana del valore) la risposta distruttiva al forte aumento della produttività verificatosi nell'ultimo trentennio, messa in atto attraverso la delocalizzazione produttiva e la finanziarizzazione dell'economia (l'evasione del capitale dal circuito della produzione), nelle quali, com'è ormai a tutti evidente, risiede la radice immediata della crisi esplosa nel 2007-08, e la base macroeconomica della disoccupazione strutturale di massa.
Se le cose stanno così, non c'è proprio alcuna possibilità che le «cure risanatrici» dispensate dai governi a suon di deflazione salariale e ulteriore riduzione della base occupata sortiscano l'effetto sperato, per il semplice fatto che, in questa situazione (a meno di grandi sconvolgimenti), il capitalismo non è in grado di conciliare profitto e sviluppo, né può - evidentemente - sacrificare il primo al secondo. A meno che non avvenga «qualcosa di nuovo», la crisi è destinata ad approfondirsi nel prossimo futuro, sortendo esiti ancor più devastanti. Ma che cosa potrebbe accadere perché questa previsione non si avveri e la crisi si arresti?
Se a decidere saranno le classi dirigenti, non c'è di che stare molto allegri. Di novità, in casi simili, il capitale ne contempla una soltanto: la guerra. Se ripensiamo ai centocinquant'anni alle nostre spalle (più o meno l'intera storia del capitalismo industriale avanzato), le grandi crisi verificatesi tra gli anni Settanta e Ottanta dell'Ottocento e a seguito del crollo di Wall Street nel 1929 furono di fatto superate con il nazifascismo e i conflitti mondiali, con l'enorme spesa per gli armamenti e la ricostruzione che le guerre richiesero.
Ma - a meno di non cedere al fatalismo - non sta scritto da nessuna parte che a decidere delle sorti del mondo debbano essere ancora una volta i funzionari del capitale privato. Le cose possono andare diversamente; un'altra uscita dalla crisi è possibile. Purché - questo è il punto - finalmente torni in campo la sinistra, la cui assenza (in tutto il mondo capitalistico) è uno dei fattori costitutivi della crisi (nella misura in cui ha consentito e tuttora favorisce il pieno dispiegarsi della distruttività del capitalismo).
Una corretta analisi
Che cosa deve intendersi con «sinistra» in questo discorso? E che cosa si richiede perché essa torni finalmente a giocare un ruolo nel conflitto sociale e politico? Rispondere a queste domande non è difficile: la risposta, anzi, è in qualche modo contenuta in quanto sin qui considerato. Possiamo definire la sinistra come il campo delle soggettività che nell'essenziale condividono questa analisi della crisi, o si generano a partire da essa: come l'insieme delle forze sociali, politiche e intellettuali che convergono nella consapevolezza di un dato epocale (l'operare del capitale privato, oggi, come potenza organicamente anti-sociale) e ne traggono le conseguenze sul piano della propria iniziativa (prefiggendosi l'obiettivo di liberare la società dalla sua azione distruttiva e oppressiva). Ma questo che cos'altro significa, se non che il terreno qui e ora decisivo per la ricomposizione delle forze e la costruzione di un soggetto unitario in grado di stare efficacemente nel conflitto è di ordine culturale o, come direbbe Gramsci, ideologico? Qualche giorno fa Michele Santoro ha rivolto ai gruppi dirigenti della sinistra, Pd in testa, una proposta interessante: aprano un confronto con l'intellettualità critica (con i «rompiscatole»), promuovano una discussione sui fondamentali che hanno orientato le loro scelte in questi vent'anni. In effetti, la sinistra può rinascere oggi soltanto sulla base di una corretta analisi delle cause della crisi, che a sua volta implica una seria rilettura critica dell'ultima fase storica, l'età del neoliberismo trionfante. Seria e - questa sì - difficile, in quanto tale da fare inevitabilmente emergere e mettere in discussione aspetti cruciali delle diverse culture politiche che attraversano il campo, quanto mai articolato, della sinistra sociale e politica.
Basti un esempio soltanto: quale valutazione dare della funzione sociale e politica del «libero mercato»? In questi ultimi vent'anni nel nostro paese la battaglia ideologica a sinistra si è combattuta in buona misura lungo il discrimine tra le forze (prevalenti) che vedevano nel mercato una garanzia di allocazione razionale (efficiente e giusta) di risorse e funzioni (e spingevano quindi affinché l'Italia divenisse un paese «normale» nel contesto occidentale), e le forze (soccombenti) che continuavano a ritenere indispensabile la direzione pubblica dello sviluppo, in un quadro di politica economica vincolato alla tutela delle classi subalterne. Oggi, a più di trent'anni dalla «rivoluzione» reaganiano-thatcheriana, non sarebbe il caso di fare un bilancio di questa disputa, misurando torti e ragioni al di là dei rapporti tra le forze in campo?
Gli ultimi vent'anni
Ma non si tratta solo di questioni economiche. Una seria analisi delle cause della crisi impone anche una riflessione su quanto è avvenuto, in sede nazionale e comunitaria, sul terreno politico-istituzionale, se è vero, come sembra, che a partire dai primi anni Novanta si sono susseguite (con l'apporto decisivo delle forze prevalenti a sinistra) iniziative o omissioni funzionali agli interessi dell'impresa e della finanza: riforme elettorali volte a ridurre lo spettro degli interessi sociali rappresentati; riforme istituzionali tese a ridurre l'incidenza delle assemblee elettive; privatizzazioni; vincoli imposti alla spesa pubblica sociale sino all'ultimo clamoroso strappo della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio; mancati vincoli alla libertà di movimento dei capitali, ecc. Anche qui: non è forse giunto il momento per un bilancio di questa stagione di riforme, se non altro per stabilire in che misura l'attuale crisi sia o meno riconducibile ai loro effetti?
Un'ultima considerazione, per concludere. È necessario chiarire che l'eventuale consenso su un quadro analitico generale, come quello qui delineato riguardo alle cause della crisi, non implica di per sé alcuna conseguenza sul piano politico immediato: comporta, certo, un'opzione critica nei confronti del modo di produzione dominante (in particolare riguardo al regime neoliberista); ma non contiene indicazioni in merito al «che fare» sul terreno della battaglia politica contingente. Tenerlo presente (considerare cioè la relativa autonomia del piano «tattico» da quello «strategico») dovrebbe favorire una discussione franca e al tempo stesso pacata tra tutte le componenti della sinistra, all'insegna del rispetto reciproco e di una reale disponibilità all'ascolto.
Non sono in gioco infatti intenti recriminatori né si tratta - tanto meno - di auspicare «rese di conti», benché una riflessione sull'ultimo ventennio, se condotta in spirito di verità, comporterebbe indubbiamente il riconoscimento di una grave sconfitta della sinistra. Il tema oggi è, come si diceva, l'efficacia dell'iniziativa in difesa del lavoro e delle classi subalterne, un obiettivo che chiede soprattutto unità e autonomia della sinistra sociale e politica, l'esatto contrario dell'attuale frammentazione. Di questo si tratta. E della capacità - vitale per una classe dirigente - di «voltare pagina» quando il tempo lo richieda, superando divisioni divenute anacronistiche.