BruceSpringsteenWreckingBall

di Stefano Miliani
Gli avidi e i ladri hanno distrutto la tua città, canta un Bruce Springsteen già infuriato in Death to my Hometown nell’ultimo album Wrecking Ball. Ma quando il Boss la E Street Band intonano quella rabbia degli esclusi allo Stadio Olimpico di Barcellona, allora è un’altra faccenda, allora l’incedere stile marcia irlandese diventa ancora più determinato, l’ira si fa carne viva, è sudore, chitarre e batteria, è respiro, è rivolta contro l’ingiustizia sociale degli uomini che toglie lavoro, che divora e prosegue.

Bruce con il suo gruppo in tour nella prima delle due tappe catalane, giovedì 17, conferma una volta di più un magnetismo e una carica che nessuno studio di registrazione può restituire. Però cova altro, molto altro, quando sale sul palcoscenico in tempi di crisi economica, di prospettive negate: in concerto il suo diventa un rock molto più arrabbiato nella potenza di suono, nei timbri più scuri e cangianti, nei colori di una voce graffiata, roca, partecipe. E quando, sempre dal nuovo album, dedica Jack of All Trades agli indignados del 15 maggio 2011 raccoglie un’ovazione da un pubblico di varia età evidentemente vicino alla protesta. Poi i fiati accentuano il tono vagamente tex-mex, nel finale Bruce imbraccia la grancassa e la sintonia con quanti si sentono fuori posto in un mondo di furbi, piegati dal liberismo, si fa impressionante, è palpabile nei volti rapiti e commossi e felici di ragazze e ragazzi, di donne e uomini immersi in una cerimonia rock che vive davvero nella condivisione collettiva. E quella rabbia, la rabbia degli sfruttati, Springsteen la esalta rendendo ancora più toccante, elettrico, commovente, urlato, il furore alla Steinbek della ballata Youngstown dal capolavoro che è The Ghost of Tom Joad: un arrangiamento tosto e azzeccato per un nuovo no alla rassegnazione.

IL RICORDO DI UN AMICO

Il Wrecking Ball tour porta il Boss e la E Street Band il 7 giugno allo stadio Meazza di Milano, il 10 allo stadio di Firenze, l’11 a Trieste. Il gruppo si muove agilmente, Steve van Zandt tiene il passo, il batterista Max Weinberg è più in forma dell’ultima tournée, per quanto gli anni si vedano, ad esempio in Nils Lofgren o nell’atletismo più contenuto del Boss. Tuttavia aleggia una presenza ineludibile durante il concerto: dopo la morte di qualche anno fa di Danny Federici, manca il sax di Clarence Clemons, il compianto «big man», colui che era più un fratello che un amico per Bruce.

Nelle lunghe ore di coda prima dello show un interrogativo serpeggia tra i fan, spagnoli, italiani, tedeschi, scandinavi, scozzesi: come sarà, dal vivo, senza Clemons? Lo sostituisce una batteria di cinque ottoni tra cui il nipote del musicista Jake Clemons al quale Springsteen affida più di un generoso assolo. Il giovane sax si fa valere, ha potenza di suono, dovrà comunque lavorare, approfondire, ciononostante lo sa lui come lo sanno tutti qui, nessuno potrà mai rimpiazzare il carisma, il tono caldo e l’umanitá di Clarence.

E Springsteen non vuole rimpiazzare nulla e nessuno: all’una di notte, durante l’ultimo bis con Tenth Avenue Freeze-Out, le foto dell’amico fraterno scorrono sul fondale del palcoscenico, Bruce chiude il canto trattenendosi serio, misurato, senza una parola per non trasformare il dolore in uno show strappalacrime. A coronare un concerto strabordante di brani storici, trascinanti, quali Hungry Heart, Thunder Road, Born to Run, Bobby Jean, Dancing in the Dark... Vitalità allo stato puro in un set di hit che Springsteen cambia sempre perché ogni concerto è una cerimonia del rock’n’roll che si rinnova.
da unita.it

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