di Romina Velchi
Un mostro si aggira per il parlamento: la riforma elettorale. Per ora è tutto fermo. Un po' in attesa dei ballottaggi; un po' in attesa che prendano forma concretamente le riforme costituzionali, con le quali la modifica del sistema di voto dovrebbe, in teoria, armonizzarsi. In teoria perché, nei conciliaboli e nei tavoli dei cosiddetti “saggi” (cioè gli esperti che stanno cercando di trovare un accordo da presentare ai rispettivi partiti e che di nome fanno Violante, Bressa, Quagliariello, La Russa, Adornato, Pisicchio e Bocchino) se ne sentono di tutti i colori.
Tanto che è lecito sospettare che non l'interesse generale, ma quello molto-molto particolare della maggioranza che sostiene il governo Monti, sia in cima alle preoccupazioni.
Infatti, prima delle elezioni amministrative l'accordo sembrava fatto: Pd, Pdl e Terzo Polo avevano messo in cantiere un sistema pseudo-proporzionale, con sbarramento al 5%, premio di maggiornaza per chi supera l'11% dei consensi, meno seggi (una sorta di punizione) per i partiti che ottentogo tra il 5 e l'11% e indicazione obbligatoria del nome del premier. Il cataclisma elettorale con sonore batoste a Lega Nord, Pdl e Terzo Polo ha rimescolato le carte: a nessuno dei diretti interessati, alla luce del risultato elettorale, conviene più quel sistema. Perciò, contrordine. La scusa, come sempre, è il rischio della ingovernabilità: fatte le dovute propiezioni dei risultati delle amministrative sullo scenario nazionale, ne uscirebbe un quadro troppo frammentato, sostengono i “saggi”. A riprova si cita il caso della Grecia (che ha un sistema proporzionale), dove si deve tornare a votare. Peccato, che in Germania si vota con un sistema simile (con sbarramento) e la governabilità non pare soffrirne. Ma tant'è: alla larga dal proporzionale (per altro l'unico vero sistema elettorale ad offrire il massimo di rappresentatività e democrazia).
Tolto di mezzo il sistema tedesco, ora bisogna aspettare che la commissione Affari costituzionali della Camera dia l'ok alla riforme istituzionali, tra le quali è prevista la riduzione del numero dei parlamentari, di cui la nuova legge elettorale non può non tenere conto. Ma, a ben vedere, sembra più una scusa per prendere altro tempo e aspettare l'esito definitivo dei ballottaggi, ciò che interessa davvero A-B-C (cioè Alfano, Bersani e Casini). Il Pd ha preso al volo l'occasione per rilanciare sul sistema a doppio turno alla francese: ogni partito va per conto suo al primo turno; al secondo, sulla base dei risultati, decide se e con chi allearsi). Ma quello è un sistema presidenziale (non parlamentare come il nostro) e per di più non piace al Pdl (o almeno a una parte del Pdl: perché il partito di Berlusconi sulla legge elettorale continua a non avere le idee chiare, oscillando un po' di qua e un po' di la). La novità è che, vista la mala parata (ovvero: che il Terzo Polo non c'è più), anche Casini sembra essersi convertito al doppio turno lasciando al suo destino il modello tedesco. Di contro, questo secondo turno amministrativo, che ha visto un drastico calo della partecipazione, proprio non fa una bella pubblicità al sistema francese in salsa italiana.
Morale: grande è la confusione sotto il cielo. Così, nuova virata: ora prende quota il sistema spagnolo; o meglio, si pensa di «spagnolizzare» il sistema sul quale si era raggiunto l'accordo prima delle amministrative; cioè di puntare ad un «ispano-tedesco, più spagnolo che tedesco» (Ceccanti, Pd), aumentando il numero delle circoscrizioni (il che significa accentuare l'effetto maggioritario).
Dunque, un Frankenstein-elettorale: siamo agli apprendisti stregoni. Sempre che non siano manovre gattopardesche per lasciare tutto com'è e andare al voto con il vecchio porcellum.