120601ignazioviscodi Keynesblog
E’ certo uno dei momenti più drammatici della crisi europea quello nel quale il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco si è trovato a dover pronunciare ieri le sue “considerazioni finali”. E non vi è dubbio che la preoccupazione e l’attenzione per lo svolgersi della crisi siano elevate, cosa palpabile in ogni parte della relazione. Ma non è questo il punto. Le considerazioni di ieri appaiono infatti, nei loro contenuti di fondo, molto parziali nell’analisi dei problemi sottesi alla crisi, e ancor più per quanto riguarda l’economia italiana.

Se è vero che è lo “spread” l’attore incontrastato delle cronache degli ultimi mesi, non bisogna però dimenticare che esso misura in qualche modo “la febbre” delle economie europee. Sarebbe così poi logico interrogarsi sulle cause che l’hanno scatenata. La relazione di ieri della Banca d’Italia indugia invece lungamente sullo stato di salute dei mercati finanziari, insinuandosi in ogni singola piega delle convulse dinamiche che ne hanno caratterizzato il continuo altalenare, ma lambisce appena le questioni retrostanti, quelle dell’economia reale, che molto avrebbero da raccontare sul perché è così scarsa la fiducia dei mercati. Non stupisce allora più di tanto il plauso che le considerazioni elargiscono anche all’operato dell’attuale governo italiano, avallando l’ottica del pareggio di bilancio e la sensatezza dell’obiettivo di fondo sul quale la BCE deve impegnarsi, quello della stabilità dei prezzi.

Bisogna d’altra parte dare atto alla relazione di Visco di riconoscere tutta l’imperfezione della costruzione dell’Europa dell’euro, del suo essere monca, di mostrare per questo difficoltà in tempo di crisi e di alimentare di conseguenza la sfiducia dei mercati che in quella costruzione non credono più. Ma allora, perché le considerazioni del Governatore si concentrano così tanto sulle virtù taumaturgiche del pareggio di bilancio e confermano la validità della linea seguita dalla BCE? Questa contraddizione la lettura delle “considerazioni” non la risolve, a meno di non pensare che il riferimento alle cosiddette “riforme” economiche in chiave liberista sia la risposta di cui siamo in cerca. Ma se questa vuole essere la risposta e se su tale metro devono giudicarsi le politiche dell’Italia, non ultime quelle dell’attuale Governo, il ragionamento sembra ancora più incomprensibile.

Non è congruente ragionare di problemi di costo del lavoro quando trapela la consapevolezza che i deficit di competitività del nostro paese risiedono in misura crescente nel suo basso livello di innovazione. Questi aspetti sono ben noti agli studiosi di Banca d’Italia, che hanno pure elaborato eccellenti documenti sulle carenze del tessuto produttivo italiano, rilevando, come è giusto che sia, la distanza che separa la nostra economia da quella degli altri maggiori paesi europei e delle economie del Nord Europa.

Si richiede uno “scatto” alle imprese, a fronte del massimo impegno garantito sul fronte del credito. Ma come è possibile immaginare che un sistema così arretrato faccia da solo il “salto di qualità” richiesto, se non in presenza di una attiva presenza dell’investimento pubblico, così come fatto in tutti gli altri paesi europei e così come sta accadendo anche nelle economie di nuova industrializzazione, sempre più protese a competere sul fronte della ricerca e dell’innovazione? E, tanto più in Italia, un paese fatto di piccole e piccolissime imprese, come si può pensare che esse siano capaci di innovare senza una spinta consistente da parte dello Stato?

Si scopre andando avanti nella relazione quale debba essere la “regola aurea” per una uscita dell’economia dalla crisi: meno spesa pubblica e meno tasse, insomma quel togliere “lacci e lacciuoli” che ultimamente non fa più parte del frasario, ma che nella sostanza è rimasto. Una possibile difesa di questa conclusione potrebbe essere il richiamo alla necessità di enunciare priorità di massima nell’azione di spesa pubblica, in particolare per quanto riguarda istruzione e ricerca. Già, ma alla luce dei vincoli di bilancio e in prospettiva di una riduzione (comunque) della spesa pubblica tutta, chi è in grado di assicurare che quella priorità si traduca anche in sufficiente quantità, viste e considerate le patologiche carenze dell’economia italiana in materia?

Forse non è ancora chiaro a qualcuno, ma “i mercati” si attendono di poter contare sulla solidità dell’economia reale e sono i suoi squilibri in Europa che creano così tanta tensione, alimentando la speculazione. E immaginare che la soluzione risieda nell’alleggerire l’euro (con l’uscita della Grecia, senza poi parlare dei prevedibili effetti contagio) o nello scioglierlo, è del tutto vano. Questi problemi, senza un serio intervento qualificato di livello pubblico e con nuove ed importanti politiche di ristrutturazione industriale, non solo rimarranno intatti ma persino peggioreranno, sotto i colpi dell’avanzata industriale dei paesi extraeuropei, dimostrando una volta di più, se ancora ce ne fosse bisogno, che questi sono i veri nodi da affrontare.

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