di Romina Velchi

Per indicare la parola crisi, i cinesi usano due ideogrammi: uno si riferisce al problema, l’altro all’opportunità. Ma qui non siamo in Cina. Siamo in Italia, un paese che sembra vittima di una maledizione (e contro le maledizioni c'è poco da fare): debito pubblico alle stelle, recessione, disoccupazione galoppante, istituzioni degradate; per finire con due terremoti, uno dietro l’altro, che hanno colpito una delle regioni italiane più dinamiche

e che rischia di aggravare ancor più il disastro economico del nostro paese.
E la politica? Non pervenuta. Persino il governo tecnico annaspa, costretto a chiamare un tecnico - siamo al tecnico del tecnico del tecnico - per risolvere il problema della spesa pubblica, mentre il Palazzo è troppo preso dalle cosiddette riforme istituzionali; riforme di cui si parla in modo inconcludente da oltre vent’anni e che altro non sono se non un mezzo con il quale l’attuale ceto politico tenta di autoriprodursi (si veda la legge elettorale). Naturale che gli italiani gli abbiano voltato le spalle, alla politica: ai ballottaggi delle ultime elezioni amministrative quasi il 50% degli elettori non è andato a votare, mentre una buona fetta di quelli che ci sono andati ha scelto il Movimento 5 Stelle di Grillo. L’«Abbasso tutti» di Guglielmo Giannini è risuonato forte e chiaro nelle urne e minaccia di farlo ancora di più alle politiche dell’anno prossimo. E’ l’antipolitica che avanza, bellezza. O forse no?
La questione è complessa. «Antipolitica è un termine insopportabilmente abusato - dice per esempio Angelo D’orsi, docente di storia del pensiero politico a Torino - In realtà bisogna collocare il M5S all’interno di una fenomenologia più ampia, quella dei movimenti. C’è un rapporto aritmetico tra la catastrofe dei partiti, il venir meno della loro capacità seduttiva nei confronti dell’elettore con l’emergere parallelo dei movimenti, di un bisogno di partecipazione diffusa. Liquidare ciò come antipolitica - continua D’Orsi - è l’esempio della sordità delle istituzioni e dei partiti. Esattamente ciò che li sta portando alla catastrofe». Insomma, insiste D’Orsi, «la questione non è Grillo, ma il M5S e i movimenti per i beni comuni, quello referendario ecc. I cittadini vogliono che la politica si occupi dei problemi più stringenti della vita, che possono sembrare terra terra, ma sono proprio quelli che toccano direttamente le persone, persino la sopravvivenza stessa: l’inceneritore sì o no?
Quali vantaggi e quali svantaggi? I partiti, soprattutto, non sanno ascoltare». Non contenti, si mettono di impegno a vanificare le decisioni prese dai cittadini, per esempio con i referendum: l’ultimo, eclatante caso riguarda quello sull’acqua pubblica, al punto che un anno dopo i comitati sono dovuti tornare in piazza: «Rispettare l’esito referendario». Se il M5S non è antipolitica, allora cosa lo è, il crescente astensionismo? «Bisogna intendersi sui termini - chiarisce Franco Russo, già deputato del Prc - Se per politica si intende la partecipazione attiva dei cittadini, attraverso i partiti, alla determinazione degli indirizzi politici nazionali, allora gli atteggiamenti di passivizzazione, l’astensionismo li si può definire antipolitica.
Ma c’è un significato corrente di politica, con la quale si intende ciò che fanno i partiti, il parlamento, le istituzioni, il sindacato; e siccome i risultati sono drammatici, ecco la fuga dei cittadini dai grandi gruppi di potere, la Confindustria, le banche, i partiti, i sindacati. I cittadini si allontanano per marcare il loro dissenso da ciò che fa questa politica. Allora, antipolitica significa essere contro i partiti. E io dico: ben venga l’antipolitica se sono questi i partiti; giustamente i cittadini italiani sono abbastanza disgustati». Se le cose stanno così, appare debole e destinato a cadere nel vuoto l’appello del presidente della Repubblica di qualche giorno fa: «Guai se invece della corsa alla politica, ci fosse la fuga dalla politica, sarebbe la catastrofe della nostra democrazia - ha scandito Napolitano - Il web è un importante canale di partecipazione, ma nessuno può condurre direttamente al luogo delle decisioni politiche», con chiaro riferimento a Grillo, di cui pure aveva già negato il successo dopo il risultato delle amministrative: «Non vedo nessun boom».
Il fatto è che la fuga già c’è stata e a quanto pare sono in tanti a non essersene accorti. Molti pensano che non è Grillo a fare campagna elettorale per se stesso, ma sono gli altri che la fanno per lui. Gli scandali, certo; la percezione che chi fa politica la fa per se e non nell’interesse generale; ma anche l’impaludamento del sistema; il cambiare tutto per non cambiare nulla; l’immobilismo sociale ed economico (mentre crescono le disuguaglianze) come conseguenza di (non)scelte politiche che hanno portato l’Italia a perdere terreno rispetto agli altri paesi europei (e non solo). Per dirne una: gli stipendi italiani oggi sono tra i più bassi; negli anni Settanta erano tra i più alti. In questo senso i primi antipolitici sono proprio i politici di professione, che hanno costruito le loro fortune (non solo politiche) attraverso mirabolanti promesse ed effetti speciali.
Qualcosa che ricorda davvero il Partito della Bistecca di Corrado Tedeschi (siamo nel 1953), che prometteva «svaghi, divertimenti, poco lavoro e molto guadagno per tutti»; o la parodia di Vamba (il papà di Giamburrasca): «L’on. Qualunquo Qualunqui rappresenta al Parlamento italiano il secondo collegio di Dovunque. Dalla XV legislatura fino agli ultimi tempi ha fedelmente combattuto nel partito dei Purchessisti, propugnando il programma Qualsivoglia e appoggiando il gabinetto Qualsiasi». Non vi vengono in mente certi voltagabbana? O personaggi alla Scilipoti? O lo stesso slogan berlusconiano «meno tasse per tutti», salvo poi non aver combinato nulla?
Ora, non è che tutti i cattivi stiano di là e i buoni tutti di qua. A mettere in guardia su questo ci pensa Giuseppe De Rita: «Gli italiani sono drogati di individualismo» e perciò non si curano della politica, non ci credono, non gli interessa; prediligono quella che il presidente del Censis definisce dimensione «orizzontale», la cultura del «fai da te». E i movimenti, compreso il 5 Stelle, non fanno eccezione: è vero che esprimono una domanda di partecipazione «ma solo a livello locale». E il fatto che, per esempio nel caso del M5S, già emergano frizioni tra il leader e i “seguaci”, è la prova, secondo De Rita, che gli italiani non amano la verticalizzazione, il capo e i colonnelli. «L’orizzontalità è figlia di come è stata fatta l’Italia moderna - spiega il presidente del Censis - L’Italia del dopoguerra è stata fatta in modo orizzontale, con sei milioni di piccoli imprenditori e 100-150 distretti industriali. La capacità della politica nel secondo dopoguerra è stata proprio quella di fare politica in orizzontale, basta pensare all’interclassismo della democrazia cristiana.
Siamo figli di quelle scelte e ne sentiamo anche i limiti. Un po’ di verticalità servirebbe, ma non è alle porte - taglia corto De Rita - Non possiamo pensare che un’esigenza che pochi, me tra questi, sentono come necessaria, e cioè il ritorno ad una dimensione verticale, si risolva in qualche anno o in un referendum». Lo diceva già il sociologo Alessandro Pizzorno nel 1971, individuando nella strategia dell’«attrazione individualista» la ragione del consenso ottenuto dalla classe dominante presso i ceti medi, attraverso le sfavillanti luci del consumismo e la possibilità dell’avanzamanto individuale. Individualisti o no, gli italiani però hanno sempre partecipato in massa alle elezioni, ben oltre le medie di altri paesi industrializzati, mentre adesso le cose stanno cambiando. Per De Rita la risposta è secca: «Quando ne vale la pena si vota; quando non vale, allora si resta fuori.
Senza troppe interpretazioni sociali». E già. Perché c’è una politica inconcludente, ma anche una sempre più omologata: «Nella Seconda Repubblica - ha scritto su Europa Marco Simoni, economista e politologo - le differenze tra le politiche economiche perseguite dai due schieramenti sono state minime, minimo il disaccordo sulle riforme più importanti», fino ad arrivare all’acme di questa omologazione, «il sostegno congiunto al governo Monti». «Le leggi sul mercato del lavoro, sulle banche, sulla concorrenza, sul diritto societario, sulla previdenza sociale, sono state sostanzialmente confermate dai successivi governi. In altre parole, esse sono state - nei fatti, che contano più dei proclami - largamente condivise». In questo senso, difficile dare torto a quanti, pur nella retorica della casta, dicono che «tanto sono tutti uguali» e se ne vanno in vacanza o al ristorante con gli amici invece che nel seggio elettorale. «Tutti gli studi di politologia - concorda Franco Russo - ci spiegano da decenni la funzione dell’elettore medio. Il sistema maggioritario attrae verso il centro tutti i partiti».
Che è, appunto, ciò che sta accadendo. «Rispetto al ’92-’94, agli anni dell’exploit di Lega e Forza Italia - continua Russo - c’è una differenza sostanziale che, disgraziatamente, riguarda proprio la sinistra: allora, nonostante la svolta della Bolognina, il Pds di Occhetto faceva ancora da riferimento a sinistra (oltre al fatto che era nata Rifondazione); voglio dire che la sinistra c’era; e c’era il sindacato. Oggi, invece, non c’è più questa tenuta a sinistra; il Pd di Bersani è parte integrante; partecipa, per esempio, al gioco del premierato, contro il quale si è tenuto un referendum nel 2006; non è più strumento di cambiamento democratico ma di conservazione».
Situazione già di per sé deprimente, cui si sommano le gravi difficoltà economiche nelle quali si dibattono ormai da tempo le famiglie italiane e che il governo dei tecnici vuole risolvere facendone pagare i costi ai soliti noti. Eppure il terremoto (sociale) non si vede: «La crisi, per l’italiano medio, viene dall’alto - avverte De Rita - E’ colpa della finanza internazionale; è l’Europa che ci impone i sacrifici; è colpa dello spread. Il governo Monti governa con questa legittimità: controllare una crisi originata altrove e gestita altrove. Questo fa sì che non si prenda coscienza che la crisi è anche nostra, del nostro modello del fai da te».
Il fatto è, spiega ancora il presidente del Censis, che «c’è anche un problema di appagamento, di una lunga corsa; diciamolo pure, di ricchezza relativa che non spinge più a rimettersi in gioco». Gli italiani sono «soli senza valori; soli senza più desideri». «Il rancore sociale evita la protesta e si trasforma in risentimento impotente, che è sedato cancellando il proprio interesse verso una vita pubblica che non funziona» è il quadro tracciato da Carlo Carboni, professore di sociologia economica ad Ancora. Per Carboni, è il disinteresse impolitico, il disimpegno diffuso il vero «male culturale italiano» e la defezione dal voto è la conseguenza «del crollo delle grandi convinzioni condivise nella società, compresa l’utopia liberista che lo stato democratico possa fare a meno della partecipazione dei cittadini». Il rischio è davvero quello di diventare un Paese a «irresponsabilità illimitata». Sarà forse per questo che in Italia non si vede l’avanzata di partiti di sinistra, anche radicali, come è avvenuto in Grecia e in Francia? Angelo D’Orsi insiste nel voler vedere il bicchiere mezzo pieno. Ciò che fa la differenza, rispetto al passato, è il fatto che, per restare al caso Grillo, «il Movimento 5 Stelle punta su due elementi assenti all’inizio degli anni Novanta: la rappresentanza e la partecipazione. E’ un vero tentativo di ritorno alla piazza, ciò che ha determinato il successo del movimento di Grillo e l’afflusso di persone che magari non condividono tutto o non hanno particolare simpatia per il comico genovese. E’ un altro tipo di politica - aggiunge D’Orsi - più autentica, la politica dell’agorà.
I cittadini sembrano voler tornare a fare politica in prima persona. I partiti non li rappresentano e non li soddisfano e gli stanno ritirando la delega, riprendendola nelle propri mani. Questo è il messaggio». Saranno solo i grillini a raccoglierlo? Ilvo Diamanti è convinto che «mai come oggi lo spazio politico, in Italia, è apparso tanto aperto». Per Franco Russo, però, «a sinistra si può ricostruire una rappresentanza politica degna di questo nome se sapremo fare riferimento a tutte le forze sociali che esprimono un’istanza di cambiamento, riattivare il conflitto sociale e dargli la dignità che merita. Altrimenti continueremo ad avere solo ceti politici autoreferenziali, generali senza esercito». Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà? «Siamo nella classica situazione gramsciana - conclude D’Orsi - C’è la possibilità di un’uscita da destra e di un’uscita da sinistra; di uscirne in modo virtuoso e di uscirne in modo catastrofico». Che abbiano ragione i cinesi a sostenere che le crisi sono anche un’opportunità?

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