di Giacomo Todeschini
«Il razzismo opera anche al di fuori degli ambiti classici e circoscritti nei quali la storiografia tradizionale tende a confinarlo»: esiste infatti, accanto al razzismo che discrimina facendo riferimento al colore della pelle e a talune caratteristiche somatiche («i negri») o all'appartenenza a un gruppo religioso e culturale («gli ebrei»), anche un razzismo sociale il cui obiettivo è «la rappresentazione delle classi subalterne in termini di razza». Così Alberto Burgio, nel secondo capitolo di questa fulminante introduzione a quanto si deve intendere con la parola «razzismo», libro quanto mai intenso di furore didattico, scritto, lo si sente, nel pieno dell'odierno imperversare di nuovi e vecchi razzismi, nel buio di una non ancora risolta elaborazione di quanto fu la Shoah (Il razzismo, Ediesse, pp. 220, euro 12).
Il nocciolo del libro, composto da quattro capitoli (autori, alternatamente, Alberto Burgio e Gianluca Gabrielli), da alcune tremende illustrazioni di quel che fu e che è la propaganda razzista, oltre che da un utilissimo glossario e da una indispensabile bibliografia, è probabilmente sintetizzato da una frase che incontriamo alla pagina 95: è qui infatti che Burgio, rifiutato l'assunto assai divulgato e piuttosto ambiguo stando al quale il razzismo sarebbe «un effetto collaterale della modernità» ci rammenta piuttosto che «il razzismo è una istituzione-chiave della modernità, uno dei capitoli fondamentali della sua biografia intellettuale e morale».
Istituzione, ossia fondamento lungamente e lentamente costruito nel tempo: colonna portante del mondo in cui viviamo e che vorremmo animato da buoni sentimenti, che spereremmo incrinato accidentalmente da brutture come le discriminazioni razziali e gli stermini, per il quale vorremmo immaginare un tranquillo passato fatto di usanze locali, villaggi e città magari intrisi di superstizioni e illuminati da roghi, ma ancora ignari delle metodiche politiche di esclusione, disumanizzazione e cancellazione degli esseri umani che il Novecento ci ha consegnato insieme col pacchetto di mercanzie, accessori e fronzoli sotto il diluvio dei quali rischiamo di soffocare.
Ahinoi, non funziona, scrivono ben chiaro Burgio e Gabrielli: il razzismo dei moderni è costruito con i mattoni antichi dell'avversione per gli estranei, del disprezzo per i più poveri, dell'esclusione delle donne dall'ordine civico, dell'orrore nei confronti degli ebrei e dei selvaggi, del raccapriccio di fronte a quanti, bestie più che uomini, sarebbero poi, fra Sei e Settecento entrati a far parte dei cataloghi delle razze inferiori, componendo una volta per tutte la scala gerarchica di un'umanità già da molto tempo composta da padroni e servi, da veri cittadini e quasi cittadini, da semi-cittadini e semplici abitatori di un territorio, da individui superiori fatti di una pasta più fine che li faceva adatti a comandare e di bruti degni soltanto di ubbidire.
Senza voler dire per questo che l'autoritarismo e le rigide gerarchie dell'ancien régime fanno tutt'uno con il razzismo che discrimina e ordina i corpi degli esseri umani graduandone il diritto di appartenere all'Umanità, gli autori di questo libro bello e utile respingono al tempo stesso con decisione una visione della storia che fa dell'antigiudaismo medievale o dello schiavismo e del colonialismo moderni altrettanti momenti neri di un passato orientato verso il progresso, rivoluzionato infine dalla contemporaneità delle emancipazioni e dei diritti, e che tuttavia, inspiegabilmente, non finisce di sorprenderci e inorridirci con i suoi misfatti e i suoi «crimini contro l'Umanità». Dietro l'orrore che fa notizia, ed è a comprendere questo che Burgio e Gabrielli invitano il loro lettore, sta in agguato una normalità del passato e del presente ben più cupa di quanto si ritenga di solito, una normalità troppo spesso ammessa come tradizionalmente morale, intesa, in quanto «nostra realtà», nei termini di un continuum di quotidianità poco drammatica, certamente non feroce, eppure talvolta, come negli incubi, perturbata da mostri e flagelli, stermini e olocausti: tutte cose eccezionali, però, che in fondo (lo si desidera fortemente) non hanno a che fare con la (nostra) Storia.
Il dilagare dei pregiudizi nei confronti di chi non fa parte del «noi» che gli Occidentali si sono costruiti nel lungo percorso di secoli che va dalla codificazione medievale dell'identità cristiana come identità superiore sino alla dichiarazione di superiorità razionale caratteristica dell'Età dei Lumi, appare oggi, Burgio e Gabrielli lo chiariscono bene, la maschera multiforme e quanto mai variegata di un razzismo la cui esistenza fra «noi» è di continuo negata come un'indecenza fuori moda, ma la cui sostanza violentemente discriminatoria è stata tuttavia abbondantemente introiettata sullo sfondo di una cultura di massa transnazionale che, ben lungi dal privilegiare (come vorrebbe la propaganda televisiva) le differenze, sottolinea invece sempre più l'eccellenza di un modello unico all'esterno del quale si stende la nera foresta del difforme e dell'inumano.
I poveri, i senza-computer, gli analfabeti e gli sfruttati di ogni forma e colore sono palesemente indicati ogni giorno come la nuova razza inferiore dei senza diritti: sterminabili senza problemi se così stabiliscono le politiche «globali» dei nuovi Führer delle multinazionali e della finanza. Questa profonda metabolizzazione del razzismo come rigetto di chi si suppone diverso per ragioni «etniche» (nota accuratamente Gabrielli nel quarto capitolo), ma anche economiche, sociali, intellettive, culturali, assume ormai, in un'epoca di spiazzamento delle vecchie sicurezze e di rapido volatilizzarsi delle appartenenze locali e nazionali, l'aspetto solo in apparenza più mite del rifiuto di quanto non è conosciuto, vicino, familiare: gli altri sono dappertutto, e quando immigrano dall'oltre mare sono immediatamente raffigurabili per mezzo dei più tetri linguaggi di un razzismo che si vorrebbe passato.
Il libro di Burgio e Gabrielli è arricchito da una breve sequenza di immagini che, intelligentemente, e insolitamente, accostano l'elaborazione di stereotipi discriminatori appartenenti ad ambienti ed epoche molto diversi: ebrei e «negri» umanamente inferiori stando al delirio iconografico della Difesa della razza, usurai medievali dalle fisionomie grifagne e bestiali a indicare la loro caratteristica appartenenza al popolo deforme ed escluso degli infedeli, gli immigrati in Italia dal nord-Africa ridotti a «orda» subumana da ricacciare in mare secondo la vulgata leghista. Così come i discorsi sono interpretabili appieno soltanto risalendo alle catene di significati che li hanno impostati, tradotti e ritradotti, così la filiera delle immagini che danno corpo alle fantasie prodotte dal diffondersi degli stereotipi va considerata in una prospettiva complessa e, seppure i cultori dell'unicità del Novecento non sembrino ancora ben comprenderlo, molto molto lunga.
I capitoli che scandiscono il libro, marcatamente, ostentatamente didattico vista l'urgenza della questione, sono di volta in volta conclusi da una breve sintesi degli argomenti proposti. Abbiamo dunque a che fare con uno strumento, davvero prezioso, di lotta irrimandabile contro la banalità di un male la cui quotidianità nefasta, sopravvissuta al processo di Norimberga e alla fine del Reich «millenario», si ripropone nella forma di ideologia implicita di un tardo capitalismo tanto più dittatoriale e sterminatore quanto più armato delle retoriche di un mercato la cui libertà consiste nel diritto dei più forti di eliminare i più deboli, gli «inadatti», gli «inferiori».
da Il Manifesto, 26/06/12