di Annamaria Rivera
La notte fra il 15 e il 16 giugno scorsi, Karim Alimi, un giovane blogger tunisino, forse angosciato per la sorte della transizione, come qualcuno sostiene, si toglie la vita. Era stato una delle voci dell’opposizione al regime e della rivoluzione del 14 gennaio. Eppure stranamente il suo suicidio, così simbolico, suscita reazioni tiepide, pochi commenti e solidarietà quasi nulla anche da parte dei blogger, tanto celebrati in Tunisia e ben di più in Occidente. Non ne parla neppure Lina Ben Mhenni, la collezionista di premi – uno dei quali ricevuto da Gianni Alemanno, nientemeno – e candidata al Nobel per la pace, addirittura: una perfetta proiezione della narrazione occidentale della “rivoluzione dei gelsomini”, che ha cancellato i veri protagonisti dell’insurrezione popolare che ha rovesciato il regime, cioè i giovani proletari e sottoproletari della Tunisia “profonda”, quella delle regioni non costiere e dei quartieri metropolitani diseredati.
Il suicidio di Alimi sopraggiunge al culmine di un’ondata di disordini, violenze di piazza, assalti e incendi a sedi istituzionali, sindacali, di partiti progressisti, compiuti da bande di salafiti e piccoli delinquenti, incoraggiati od orchestrati dietro le quinte, si dice, da cacicchi del vecchio regime. Il quale tuttora esercita la sua influenza. L’ex partito unico, l’Rcd, è infatti ancora insediato in reti mediatiche, sistemi finanziari, apparati di sicurezza: la repressione violenta delle manifestazioni, le prigioni segrete, la tortura dei fermati e degli incarcerati continuano come se niente fosse accaduto. In questo stesso periodo, Beji Caid Essebsi, ex ministro dell’Interno sotto Ben Ali nonché ex capo di uno dei governi provvisori post-rivoluzione, si dà un gran da fare per riorganizzare in un nuovo partito i vecchi arnesi del regime deposto.
Se prima c’erano stati l’affaire Persepolis, l’assedio all’Università della Manouba, a Tunisi, il saccheggio della sala cinematografica Afric’Art, l’aggressione ad artisti e giornalisti (per citare solo pochi fatti fra i tanti),  questo nuovo ciclo di violenze, di stampo ultra-islamista e d’ispirazione controrivoluzionaria, s’inaugura la notte fra il 10 e l’11 giugno con la distruzione di alcune opere d’arte esposte nel Palazzo El Ebdellia, alla Marsa, vicino Tunisi, che i salafiti giudicano blasfeme. Invece di stigmatizzare l’atto odioso, il ministro dell’Interno e quello degli Affari religiosi -entrambi di Ennhada, il partito islamista che domina il governo di transizione guidato da Hamadi Jebali- confermano il giudizio di blasfemia. Perfino il ministro della Cultura, l’indipendente e laicissimo Mehdi Mabrouk, sociologo delle migrazioni, un tempo su posizioni avanzate, si affretta a ordinare la chiusura dell’esposizione e del Palazzo e a denunciare gli artisti e gli organizzatori, anch’egli per blasfemia. L’incidente è utilizzato dal governo per compiere un’ulteriore stretta repressiva e per rilanciare la propaganda contro i nemici dell’islam e gli “estremisti di destra e di sinistra”.
Abbiamo definito simbolico il suicidio di Alimi. Infatti, la rivoluzione come la controrivoluzione si manifestano con un atto suicidario. Il processo che condurrà alla fine del regime benalista si accelera, come è ben noto, dopo l’autoimmolazione pubblica di Mohamed Bouazizi: un suicidio col fuoco fra i tanti -prima, dopo e tutt’oggi- che sarà scelto come evento fondante. Simmetricamente, la controrivoluzione, che non ha mai smesso d’insidiare la cosiddetta transizione, si rende palese in tutta la sua gravità col suicidio del blogger.
A insidiarla non sono soltanto il bigottismo di Ennhada, le violenze dei salafiti o le reti straniere che, guardando di malocchio la transizione democratica, sostengono a forza di petrodollari i predicatori wahabiti, ma soprattutto l’insipienza, governativa e non solo, quanto a risoluzione dei gravissimi problemi economici e sociali del Paese, in primis la disoccupazione galoppante, la precarietà drammatica, le profonde disparità regionali. La stessa opposizione politica e sociale, spesso intrappolata in dibattiti vani sull’identità arabo-musulmana della Tunisia, non riesce, con poche eccezioni, a organizzare razionalmente i bisogni, le istanze e il malcontento popolari. E neppure a condurre una battaglia conseguente sul piano dei tanto sbandierati diritti civili, libertà di espressione e così via.
Basta dire della debole reazione –neppure uno sciopero della fame!- a un fatto gravissimo accaduto di recente. Il 25 giugno scorso la Corte di Appello di Monastir ha confermato la condanna a sette anni e mezzo di prigione, più un’ammenda di 1.200 dinari, di Jabeur Mejri, un trentenne di Mahdia, che aveva postato su facebook scritti e immagini di Maometto giudicati blasfemi. Un altro giovane, Ghazi Béji, è stato condannato alla stessa pena in contumacia, essendo riuscito a fuggire in Europa allorché il caso è scoppiato. Per bocca del suo portavoce ufficiale, il presidente della Repubblica, il laico Moncef Marzouki, storico oppositore di Ben Ali e un tempo attivo difensore dei diritti umani, aveva approvato la pesante condanna in primo grado dei due giovani.
A tutto questo si devono aggiungere la conflittualità che caratterizza i rapporti fra la Troika di governo (la coalizione fra Ennahda e i partiti laici Cpr ed Ettakotol), aggravata dalla tensione fra il primo ministro e il presidente della Repubblica, sopraggiunta in seguito alla decisione unilaterale di Jebali di estradare Baghdadi Mahmoudi, ex primo ministro di Gheddafi.
Insomma, la transizione tunisina si annuncia tortuosa, difficile e lunga. A meno che ad accelerarla non sopraggiunga una nuova ondata di protagonismo e rivolte popolari.


(30 giugno 2012)

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