di Romina Velchi
Ci voleva la legge elettorale (o meglio la prospettiva di non essere del tutto spazzati via e di continuare a “pesare” anche se in minoranza nel paese grazie alla grande coalizione prossima ventura) per resuscitare in parlamento la vecchia alleanza Pdl-Lega-Udc (per la cronaca, quella che a suo tempo approvò il Porcellum...). E così, per il Pd si fa più serio il rischio di perdere le prossime elezioni dopo aver rinunciato ad una vittoria sicura per far posto al “tecnico” Monti.
Dunque, come noto è successo che in commissione affari costituzionali del Senato, dove erano approdate le due proposte di legge di riforma del sistema elettorale, quella targata Malan (Pdl) e quella targata Bianco (Pd), la prima, grazie ai voti di Casini e Maroni, ha ottenuto lo status di testo base, cioè quello sul quale inizierà la discussione e che andrà in Aula per la votazione definitiva. L’altra, automaticamente, è decaduta. La “vittoria” è stata di 16 a 10; contrari il Pd e l’idv. E meno male che doveva essere una riforma condivisa...
Il Pdl esulta; l’Udc lo considera un buon compromesso; il presidente del Senato promette che farà di tutto per arrivare ad una votazione finale entro fine mese. Il Pd, al contrario, strepita e strilla; dice che il Pdl ha fatto una forzatura; che ora la Grecia è più vicina; che bisogna far saltare il tavolo.
In realtà le due bozze sono praticamente identiche, perché i due relatori erano riusciti a trovare l’accordo pressoché su tutto. Entrambe consistono in un finto proporzionale, con premio alla coalizione vincente del 12,5% nazionale sia alla Camera che al Senato (sufficientemente basso da non regalare maggioranze assolute e lasciare aperta la strada dell'accordo post-elettorale, come vuole Casini); sbarramento al 5% (che si abbassa al 4% se la lista è in una coalizione: norma salva Vendola?)); parità di genere; norma “salva-Lega” (entra in parlamento anche la lista che ottiene almeno il 7% in un insieme di circoscrizioni pari ad un quinto della popolazione italiana); un terzo degli eletti viene scelto con listini bloccati. E i rimanenti due terzi? Qui c’è lo scoglio, l’ostacolo sul quale i relatori non hanno trovato l’accordo e sono dovuti andare “separati“ in commissione. Il Pdl vuole le preferenze; il Pd giammai: vuole i collegi uninominali, perché «c’è una questione morale» e le preferenze aprono la strada alla corruzione.
Con ragionevole certezza, dunque, il dibattito parlamentare, prima al Senato e poi alla Camera, sarà tutto concentrato su questo aspetto. Ed è altrettanto ragionevole pensare che il Pd farà leva sugli scontenti del Pdl. Che pure non sono pochi, se la lettera inviata a Berlusconi e Alfano per dire no alle preferenze è stata sottoscritta da oltre 40 parlamentari, alcuni di “peso“ come Enrico La Loggia, Giuliano Cazzola, Stefania Prestigiacomo, Antonio Martino. Al Pd sanno pure che sul tema delle preferenze il partito del Cavaliere è diviso: da una parte gli ex An, che vedono nel radicamento nel territorio la loro ancora di salvezza qualora Berlusconi volesse rottamarli; dall’altra, i catapultati e i nominati, che non hanno mai dovuto confrontarsi con il lavoraccio di cercarsi i voti e che con le preferenze rischiano di non essere rieletti. E dunque chissà cosa potrebbe succedere nel segreto dell’urna...
Ben triste dibattito. Di chi guarda il dito anziché la luna. Perché quella che si sta consumando, anche grazie al Partito Democratico, è una vera truffa ai danni dei cittadini e della democrazia e non sarà l’introduzione o meno delle preferenze a cambiare la (brutta) sostanza di una legge il cui unico scopo (dichiarato) è quello di spianare la strada ad un governo Monti bis, sostenuto da una coalizione allargata (ovvero da chi ci sta).
Che si tratti di un imbroglio lo si capisce anche dal nome. Sui giornali, in tv, nelle agenzie di stampa il sistema escogitato (da partiti e leader ormai privi di qualsiasi credibilità politica e morale) viene definito proporzionale ancorché «corretto». Peccato che un sistema è veramente proporzionale se rispetta, appunto proporzionalmente, la volontà dell’elettore. La bozza votata giovedì, prevedendo un premio di maggioranza del 12,5% (che significa 76 seggi in più alla Camera e 37 al Senato) accoppiato ad una soglia di sbarramento del 5% (e dunque stabilendo che alcuni voti valgono più di altri), della volontà dell’elettore semplicemente se ne infischia, perché lascia fuori dal parlamento qualche milione di persone che hanno scelto di votare per partiti “minori“. Quelli che, guarda caso, danno fastidio ai manovratori.
La prova? In Europa esiste ancora un sistema elettorale davvero proporzionale: è quello tedesco. Se vi dicono che è una via di mezzo con il maggioritario, non credetegli. E’ vero che l’elettore tedesco ha a disposizione due voti: con il primo sceglie il candidato del collegio uninominale (sono 299; vince chi prende più voti); con il secondo dà la sua preferenza alla lista (bloccata) presentata dal partito. Ma questo secondo voto è quello in base al quale vengono ripartiti, proporzionalmente, tutti i seggi del Bundestag; dunque è il più importante perché incide anche sul primo: per semplificare, il voto proporzionale determina “quanti“ eletti; il voto “maggioritario“ “quali” (se il numero dei seggi ottenuto proporzionalmente è superiore a quelli ottenuti nei collegi uninominali, gli eletti in più verranno “pescati” dalle liste bloccate). Insomma, a tanti voti corrispondono tanti seggi; tutti i voti sono uguali. Esistono poi delle eccezioni, che sono alla base del motivo per il quale il numero dei deputati è variabile (c’è un numero minimo, ma non un numero massimo), ma la sostanza non cambia: il sistema tedesco dà a Cesare quel che è di Cesare, cioè riconosce ai partiti, grandi o piccoli, il peso politico che effettivamente hanno nel Paese. Vi sembra poco?
redazionale