di Luca Casarini
Un sorprendente Ezio Mauro su la Repubblica restituisce la cifra di ciò che è stato capace di fare il 14 Novembre. Noi, che ci siamo immersi in esso, continueremo a lungo a guardarlo da vicino. Ma non è inutile iniziare da quello che vedono gli altri, e in particolare coloro che non stanno certo dalla parte dei movimenti che si battono per un cambiamento radicale, come la Repubblica. “Deficit di libertà” titolava ieri l’editoriale a firma del direttore del giornale – partito più attivo d’italia, e spiegava, argomentando con grande scioltezza, che il 14 novembre non si può ridurre né
alla gestione dell’ordine pubblico, né alle intemperanze di una qualche minoranza. Mauro inizia proprio come di solito non succede: “soltanto chi non vuol vedere ciò che ha sotto gli occhi può ridurre ad una questione di ordine pubblico la mobilitazione contro l’austerità, per il lavoro e il welfare, che ha riempito le piazze d’Europa”.
Incipit inequivocabile, come inequivocabile è la frasetta di circostanza contro la violenza che segue, e si capisce che è appiccicata al testo come fosse una parola d’ordine, una frase doverosamente messa lì per posizionare bene la palla al centro prima di tirare un rigore all’incrocio dei pali. Stavolta anche la violenza però, acquista soggettività: è anche “di Stato” per Mauro, e la “polizia deve evitare l’abuso e l’esercizio di una violenza di Stato che purtroppo abbiamo già visto andare vergognosamente in scena nelle nostre città”. Non male.
Ma il rigore, tirato all’incrocio dei pali della porta del montismo e delle politiche europee della tecno burocrazia finanziaria, viene dopo. E’ un ragionamento, quello che articola il direttore di Repubblica, che attribuisce al 14 Novembre un grado di politicità altissimo: il nodo gordiano che la mobilitazione ha finalmente sciolto è quello di un capitalismo neoliberista, anche nella sua versione italiana, furba, corrotta e malavitosa, che si è arrogato il diritto di pensarsi come unica soluzione alla crisi che esso stesso ha generato.
Lo sciopero europeo, e la sua qualità oltre che entità, ha messo le mani su ciò che le istituzioni, i governi, i partiti, le centrali della produzione di opinione hanno finora (e non potrebbe essere altrimenti!) accuratamente evitato di considerare, e cioè che a una crisi di sistema si deve rispondere cambiando quel sistema. Il 14 novembre, e il prezzo sono state le violenze in tutta Europa delle polizie scatenate da Madrid a Lisbona, da Roma a Barcellona, ha aperto un varco importante, che riesce a far pronunciare ad Ezio Mauro parole che non circolano molto, e liberamente, ai piani alti dai quali scrive.
“Il neoliberismo, dopo aver generato la crisi, si è trasformato paradossalmente nel suo presunto antidoto, cioè nell’unica legge di sopravvivenza delle democrazie esauste d’Occidente, diventando, nei fatti la religione superstite, una moderna ideologia. Non c’è oggi un confronto culturale in atto nei nostri paesi. Non c’è una cultura capace di coniugare capitale, lavoro, responsabilità fuori dal paradigma che ha fallito, ma domina ancora il campo.”
E per la prima volta forse, le colpe sono redistribuite correttamente, senza concedere assoluzioni di comodo. Anche ad una sinistra che “scambia la modernità con il senso comune altrui, in cui nuota controcorrente, da gregaria”. Pochi paragrafi prima la questione viene affrontata evidenziando l’abisso che esiste tra le teorie della “democrazia compassionevole” e della “Big Society”, gli appigli appunto della sinistra “i care” e il Welfare state: i diritti diventano carità, la benevolenza individuale e dei gruppi sociali sostituiscono lo stato sociale.
Ne ha anche per i tecnici ( sorprendente per Repubblica, che con Scalfari ha fatto il megafono di Napolitano nell’operazione Monti): “ la tecnocrazia, impegnata in una necessaria azione di risanamento e in una nuova forma politica di rispetto delle istituzioni ( eccolo l’ossequioso riconoscimento per lo Scalfari pensiero ) soffre tuttavia di una specie di ‘integralismo accademico’ che la porta a privilegiare i paradigmi scolastici rispetto alla realtà”. Non male.
Il 14 Novembre continua ad esercitare un effetto prodigio su Mauro, facendogli considerare l’Europa come il luogo dove, in questo momento, le istituzioni e la politica hanno elaborato una pratica governamentale che si colloca fuori dalla democrazia: “strumenti decisivi e cruciali nella costruzione europea come la Bce, si sono trasformati davanti a noi in veri e propri soggetti della governance comunitaria, senza essere mai stati eletti. Leadership di fatto, come quella di Angela Merkel, contano più delle istituzioni dell’Unione, trojke e istituti che non rispondono ai cittadini commissariano i governi, agenzie di rating possono più delle pubbliche opinioni.”
Mauro conclude sulla necessità di una governance democratica, ma ciò non gli pare, giustamente, abbastanza. Il cuore del discorso, e del problema dunque, è il rapporto tra capitale-lavoro-welfare, identità naturale delle democrazie occidentali. Se salta tutto, dice Mauro, salta anche la camera di compensazione dei conflitti che “ci ha tutelati tutti”, che ha reso possibile la coesistenza nelle diseguaglianze, rendendole tollerabili e sopportabili. E’ proprio nelle sue conclusioni che Mauro scrive il nostro incipit: “fuori da quel vincolo di libertà tra capitale, lavoro e cittadinanza, è difficile trovare nuove legittimazioni di sistema per tutti. Fuori non sappiamo come riscrivere il contratto sociale, le obbligazioni reciproche, le protezioni e le opportunità di crescita, i nuovi diritti e i nuovi doveri.”
A noi la "ri-legittimazione di sistema" non interessa, anzi. E non possiamo fare a meno di notare come, alla lucidità dell'analisi il direttore di Repubblica faccia corrispondere una irrealistica nostalgia per i bei tempi andati del compromesso sociale fordista, di cui mancano oggi (e da almeno tre decenni) gli ingredienti base: alle radici della crisi sta proprio la metamorfosi profonda di quel capitale, di quel lavoro e di quella cittadinanza. E ciò rende materialmente impraticabile la riproposizione di quel patto.
Ma il punto è qui un altro: ciò a cui Mauro allude nella sua chiosa finale più che lo spazio di rappresentanza di una sinistra tradizionale, è per noi lo spazio di azione dei movimenti. Beninteso, il suo tentativo di riportare dentro parametri socialmente "sostenibili" il capitalismo e il suo rapporto con la democrazia liberale per come si è storicamente determinata, disegna certamente la traiettoria possibile di una governance "di sinistra”.
E non è questo il terreno dei movimenti costituenti che crescono sulla spinta di un desiderio di alternativa radicale, di sistema. Ma nello spazio che si apre nel conflitto tra diverse ipotesi di governance, i movimenti possono rafforzarsi, non essere immediatamente maciullati, non essere ridotti a problema di ordine pubblico e quindi annientati con le regole della guerra, che come abbiamo visto sono pienamente contemplate tra i dispositivi di una governance post-democratica.
I movimenti e la governance stanno su due campi diversi ed antagonistici, nelle nostre società non può che essere così. Ma è evidente che queste due dimensioni si influenzano l’una con l’altra. E’ evidente che la rielezione di Obama c’entra qualcosa con Occupy Wall Street, come il fenomeno Syriza con l'ondata di lotte greche contro l’austerity. Ed è evidente che in Spagna ciò che verrà dopo Rajoy dovrà fare i conti con la società cresciuta nelle acampadas o nelle rodeadas del congreso.
I movimenti fanno società e la governance deve intervenire su di essa. Possono forse ignorarsi? Come Ezio Mauro è costretto a vedere ciò che le piazze del 14 Novembre hanno espresso - e stiamo parlando di Europa, democrazia, diritti, austerity - così i movimenti non possono ignorare il campo e le condizioni nelle quali si trovano ad agire.
E’ per questo che il 14 Novembre ha espresso potenza costituente. Innanzitutto per aver assunto l’Europa come lo spazio politico nel quale esercitare la propria forza, e non il singolo paese. L’Europa è il punto critico della governance, perché è anche il suo livello più alto e più complesso. L’austerity è innanzitutto un problema europeo, e il commento a caldo della Merkel dopo lo sciopero, lo evidenzia.
Dentro questo quadro però il 14N è stato anche paese per paese. Ed è stato Sud Europa. Spagna, Grecia, Portogallo e Italia. E in ognuno di questi paesi il 14N è stato città per città. Come dire che questa potenza si è potuta esprimere perché non si è reciso, in favore di un simbolico evento in un’unica grande capitale, il legame tra i territori, le loro materiali contraddizioni e il contesto continentale nel quale quei territori si trovano ad essere inseriti.
In ogni città si scendeva in piazza pensandosi come europei in lotta, e pensarsi come tali non ha significato creare dei metaluoghi altrove, ma cambiare la realtà, qui ed ora, a casa propria, sapendo che così facendo si contribuiva con altri a cambiarla ovunque. Abbiamo imparato che far succedere questo significa sciopero generale.
Mai slogan coniato da chissachì e viralmente divenuto di tutti come “Occupiamo lo sciopero”, ha avuto più fortuna. Adesso è evidente che per fare sciopero generale bisogna fare cose a casa propria e nello stesso tempo ovunque.
La cornice dello sciopero generale, indetto dai sindacati e occupato dai movimenti, è stata fondamentale: milioni di persone nel Sud Europa sono state coinvolte, se non in termini di partecipazione diretta sicuramente per quanto riguarda il pathos, la tensione, l’immaginario. Aspetti decisivi questi ultimi, per poter creare il clima favorevole per l’azione concreta.
Perché ovunque, e questa è l’altra grande prova del 14, sono successe cose. Lo sciopero è quando qualcosa accade, in termini di violazione dell’ordine costituito, di leggi, di pratiche non consentite.
Il vecchio paradigma dell’illegalità di massa ha ripreso nuova vita e nuovo ruolo: l’illegalità di massa è la legittimazione dello sciopero.
Scioperare, anche per chi ha il contratto e il posto di lavoro, non può più voler dire solo “astenersi dal lavoro”, tra l'altro pagandosi la giornata con il proprio magro salario. Scioperare significa bloccare le strade, occupare e riappropriarsi di luoghi per destinarli a funzioni sociali, invadere i binari e fermare la circolazione, sanzionare agenzie interinali, banche e agenzie di riscossione delle tasse. Significa anche affrontare la polizia perché non ti permette di raggiungere i palazzi del potere. Attraverso modi e forme che stanno dentro lo sciopero, che non se ne separano come corpo collettivo ed unitario.
Il 14N tutto questo e in tutta Europa l’ha fatto. E l’hanno fatto soprattutto gli studenti, parte consapevole di una più ampia composizione sociale precaria, che hanno dato allo sciopero un corpo grande, i numeri e la disponibilità ad osare, senza mai che questa si trasformasse in pratica individualistica e autoreferenziale. E’ per questo che Ezio Mauro e quelli come lui si sono convinti questa volta a parlare della posta in gioco. Ed è per questo che stavolta il problema, anche per l'opinione pubblica, è la polizia e la sua criminale azione di sempre, e non i manifestanti. Ed è per questo, grazie alla potenza e all’intelligenza collettiva dello sciopero, che tutti i compagni arrestati sono già fuori. Come dimostra il 14N, non si tratta di “liberare il campo” da chissà quale soggettività “passata”, per riempirlo con chissà quale altra. Si tratta di occuparlo questo campo di battaglia, di arricchirlo di una molteplicità di figure sociali e soggettive, in permanente tensione costituente verso ciò che è comune. E che le vecchie generazioni si mettano a disposizione di quelle nuove che hanno voglia di farlo.
da Global Project