di Giulia Valsecchi
«Leonilde», cioè portare in scena Nilde Iotti, staffetta partigiana, comunista, parlamentare e donna di orgoglio e passione politica. La sua rappresentazione, alla Milanesiana, è scelta ideale per contrasto di questi tempi. Fa rivivere l’esperienza di un’abnegazione politica e ideologica, nel mezzo dell’oscillazione contemporanea tra volgarità sfacciata e austerità di copertura.
Quel che la memoria storica e civile non contemplano fa capolino come pratica di palcoscenico tesa non tanto e non solo a ricordare, ma piuttosto a far rivivere l’esperienza di un’abnegazione politica e ideologica nel mezzo dell’oscillazione contemporanea tra volgarità sfacciata e austerità di copertura.
Il tempo aiuta nella misura in cui non omette, ma serve a rintracciare le ombre, i fantasmi di identità vocate al sacrificio per il bene comune, figure che chiedono un linguaggio che selezioni i fatti.
Lo scorso 8 luglio, in occasione della tredicesima edizione de La Milanesiana, festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi, la serata è stata interamente dedicata a Nilde Iotti. Il tema portante della rassegna in più sedi, distribuite quest’anno anche tra Bergamo e Torino, ha posto l’imperfezione al centro degli incontri e dibattiti, delle proiezioni ed eventi musicali o teatrali tra cui proprio il ritratto dell’unica donna eletta per tre volte consecutive Presidente della Camera dei deputati, dal 1979 al 1992, si è fatto largo nella combinazione di “compiutezza storica e travaglio personale”.
Binomio dichiarato da Sergio Claudio Perroni, editor Bompiani e autore del monologo Leonilde presentato in lettura scenica per voce di Michela Cescon. Dopo il debutto a giugno al Teatro India di Roma, nel 2013 verrà riproposto integralmente al Teatro Franco Parenti di Milano in parallelo a Esequie solenni di Antonio Tarantino, reinvenzione scenica dei dialoghi tra la compagna di Togliatti e la vedova De Gasperi.
Come da tradizione de La Milanesiana, la preparazione alla lettura di Leonilde è avvenuta dopo una serie di interventi a partire da un breve scritto di Walter Veltroni sulla statura politica e morale di Nilde Iotti, sulla sua ricerca di normalità nell’eccezionalità di molteplici privazioni seguite da conquiste ineguagliabili. Traguardi riflessi nella costanza di un’opposizione alle gabbie ideologiche e nel sostegno pressoché totalizzante all’emancipazione femminile come pratica di vita quotidiana compiuta.
Emiliana, figlia di un ferroviere socialista da cui eredita un cappotto e una camicia di flanella, l’esistenza piena di Leonilde dal nome di battaglia, non incarna tanto un’agiografia, ma una drammaturgia calata in una trama autorevole, fatta di determinazione razionale e idee concepite come armi che rendono conto di una salita perenne a partire dal rifiuto del credo cattolico. Un credo ritenuto assurdo, seppur poetico e capace di bellezza, necessario a farla lavorare e formarsi con una laurea in Lettere presso l’Università Cattolica. Una macchia indelebile agli occhi del Partito comunista cui Iotti aderisce convincendosi della sua necessità dopo i cadaveri della guerra e la partecipazione al Gruppo di Difesa della donna di cui diventa anche responsabile.
Lo stesso spirito antifascista la guida ben oltre la candidatura da parte del Pci e l’elezione a soli 26 anni nell’Assemblea Costituente del 2 giugno 1946: Nilde Iotti è tra le levatrici della costituzione nella Commissione dei 75 e se inizialmente, per mantenersi, insegna e collabora con Il Resto del Carlino, più tardi comprende che proprio dalla visibilità delle idee dipende la scorrevolezza della scrittura trasfigurata in dovere istituzionale. È la metamorfosi di una ragazza maturata troppo in fretta, “neanche il tempo di andare in vacanza”, recita l’incipit del monologo.
La voce e la fatica narrativa di Michela Cescon, seduta su un’unica sedia borghese, hanno attraversato solo una sezione incompiuta, ma saliente della visione registica di Roberto Andò. Chiamato sul palco a leggerne la nota interpretativa, il primo riferimento è alle Lettere alla giovinezza di Vittorio Foa con quell’urgenza atemporale della dignità di un ruolo fondato su una dimostrazione di azioni, e perciò più esemplare. La scena ne ha raccolto le penombre attraverso contributi sonori di passi, nastri di votazioni parlamentari, sussurri e canti partigiani di una Resistenza vissuta da Leonilde accanto a donne infagottate di provviste e provenienti da fazioni politiche distinte, ma riunite nell’eroismo involontario.
L’ascesa dell’onorevole Iotti avviene così nella clandestinità prima e dopo l’incontro con Togliatti nel ’46, nelle passeggiate di nascosto al Pincio, nell’indissolubilità imposta dal rigore morale del partito al matrimonio tra il segretario generale del Pci e Rita Montagnana, militante antifascista della prima ora di certo non sospettata d’essere la longa manus del Vaticano o la spia di De Gasperi. La valigia di Nilde nella casa provvisoria del partito rimane non a caso aperta per molto tempo, finché nel 1948 tutto è dichiaratamente esplicito dopo l’attentato dei quattro proiettili: il corpo di lei gettato a barriera su quello dell’uomo cui Stalin avrebbe voluto affidare il coordinamento del Kominform.
Ecco che la devozione coincide con la vergogna pubblica di un amore arrestato da un ictus a Yalta. La rinuncia a un figlio illegittimo si fa naturale premessa alla battaglia a favore della legislazione sul divorzio, all’incitamento rivolto alle istituzioni perché restino al passo coi tempi e, più radicalmente, all’affermazione con la vita per cui nessuna azione femminile è una desinenza in “a” del maschile, ma il diritto a un’intera declinazione. Là dove l’identità civile si staglia nello spazio fragile del sudore dell’attrice che ne ricalca ottimamente il prezzo di isolamento, si rinnova anche un prestigio all’apparenza algido, di fatto segnato da perdite che hanno inciso molto più di certe conquiste epocali.
da L'Inkiesta