di Luciano Del Sette

Nessun good evening, nessun so long. È sempre stato così, o quasi, nei quarant'anni e più dei suoi concerti intorno al globo. È stato così anche a Barolo, Langhe piemontesi, unica data italiana nell'ambito del Festival Collisioni, che si è chiuso lunedì 16 con Bob Dylan sul palco a celebrare il mezzo secolo di Blowin'in the wind. Giacca scura, pantaloni chiari, camicia bianca e cravattino, cappello cinto da una fascia rossa, Bob ha fatto la sua comparsa, puntuale, alle 21 e 15. Un attimo di silenzio tra i seimila. L'attimo che ammutolisce quando il mito si fa carne, ossa e chitarra (ma anche pianoforte e armonica).

Poi le braccia in alto, l'applauso simile a un grido di stupore collettivo perché tra luci e strumenti, mixer e microfoni, lui è proprio lì, lui è proprio lui. Durante il soundcheck, un tecnico aveva posato su una sedia, un po' in disparte, la sei corde del menestrello. E lo sguardo di molti spettatori si era fermato a fissare quell'angolo del palco. Gli spettatori, il pubblico.
Nella lunga sequenza estiva che precede il buio, hai tutto il tempo per vedere e parlare con gente arrivata da tante città d'Italia e da altri confini: Milano, Roma, Genova, Savona, Bologna, Cosenza, Napoli, Torino, Cuneo, Firenze, i paesi delle Langhe, Svizzera, Austria, Germania. Il servizio d'ordine aveva governato le due file lunghissime, che, disposte a un passo dalla piazza del parcheggio trasformata in arena musicale, aspettavano il via. E al via, molti erano schizzati velocissimi per guadagnarsi un posto in prima fila. Verso le otto e mezza di sera il grande spiazzo è pieno. Si respira calma, profumo di birra, odori di panini industriali che offendono la tradizione gastronomica di questa porzione di Piemonte. Ma non importa. Stasera si masticano altre cose, si calma altra fame. Guardi i tatuaggi dei ragazzi e le rughe di chi ha superato il traguardo dei cinquanta, le magliette che inneggiano a Bob e le camicie con le maniche arrotolate come speranza di un'eterna giovinezza, i falsi cappelli panama in testa e le teste afflitte da calvizie, le ragazze vent'anni o poco più e le signore con un passato nei cortei per i diritti delle donne, le scarpe da ginnastica e i sandali crucchi firmati birkenstock, gli zaini per tutte le età. Potrebbe essere un concerto di Guccini, raduno di una generazione che ha cantato La locomotiva da protagonista, e di generazioni che l'hanno cantata da epigoni di padri e madri. Ma forse, stasera, c'è qualcosa di diverso, qualcosa di più. E allora domandi, ascolti risposte che non volano nel vento. Tra Cristina, nata a Torino, e Bob, nato a Duluth, ci sono cinquant'anni di distanza anagrafica. Che ne sai tu di Bob? Lei sa tutto, dice lo apprezzo molto come artista, Just like a woman è una delle mie canzoni preferite, e The times they are a changing. Due treni, una corriera e un autostop, età quarantasette, partenza da Roma alle sei del mattino. Nessun rimpianto per la faticaccia. «Seguo Dylan in concerto dal 1984, ho tutti gli ellepi fin quando sono usciti, e poi tutti i cd». Sulle ragioni che hanno spinto il suo idolo ad arrivare a Barolo azzarda: ama il vino e lui stesso è produttore. Una canzone su tutte? It's all over now Baby Blue. Da Oderzo, provincia di Treviso e terra di rugby, occhiali anni '70, capello corto il giusto, ventitre primavere «Ho conosciuto Dylan grazie al documentario di Scorsese (No direction home, 2005, ndr), il mio pezzo preferito è Like a rolling stone. Li ho tutti su mp3».
Brusco salto, generazionale e non topografico. Claudio viene da Chiusa Pesio, Cuneo. Ha due anni meno di sessanta. Dylan forever, soprattutto la colonna sonora del film Pat Garret e Billy Kid. L'età non conta per un ragazzino undicenne, arrivato sin qui dalla provincia sabauda con i genitori «Ho ascoltato per i fatti miei Dylan e ho deciso che la sua musica mi piace, anche quella 'di una volta'. Soprattutto Like a rolling stone». Il signore rubicondo fa parte di un gruppo svizzero ed estatico, che con buona proprietà di italiano esprime la sua ammirazione. Inglese perfetto quando i suoi componenti dichiarano le loro preferenze: da Blowin'in the wind a Rollin'and tumblin'. E via così, in una mappa geografica unita da una certezza comune: quando Bob uscirà fuori, se non saranno lacrime di commozione, il groppo alla gola salirà. Ed eccolo, Bob, accompagnato da una band strepitosa: due chitarre, basso e contrabbasso, batteria, steel guitar con compiti supplementari di violino. Apre Leopard skin pill box hat, dall'album Blonde on Blonde, 1966. E da subito le intenzioni sono chiare: blues e rock blues portati all'eccesso, dove lunghi passaggi soltanto strumentali abbandonano la voce. Una voce roca e scura che va sempre più somigliando a quella di Tom Waits, salvo rivelarsi capace di tornare alla chiarezza imperfetta e sporca dei tempi passati. Dylan è un elfo seduto al pianoforte, gambe magre senza sosta sui pedali; è la maga Circe che incanta con l'armonica e l'uomo con la sei corde in mano che suona e inchioda; è il folletto in piedi davanti al microfono, che un attimo dopo scompare nel buio e riappare cantando a un passo dall'immensa batteria.
Due ore di concerto, bottino generoso per gli spettatori. Ma due ore avare di fedeltà al passato, pur se al centro della serata ci sono brani tratti dagli album capolavoro anni '60: The freewheeelin'Bob Dylan, Bringing it all back home, Blood on the tracks, Highway 61 revisited, John Wesley harding. Bob stravolge gli originali, rende quasi irriconoscibile gran parte del repertorio, trasforma in fatica a comprendere che quel che sta cantando è Ballad Of A thin Man. E invece spiazza, quando costringe la platea al silenzio con un'indimenticabile versione di A hard rain's a gonna fall, 1963. Principessa dei due bis (l'altro è Like a rolling Stone), ovviamente Blowin'in the wind. La suona, Bob. Francesco e Sara, trentenni, vanno via delusi come tanti altri. Che fosse il brano con mezzo secolo sulle spalle non lo avevano capito. Forse avrebbero voluto Bob chitarra in mano e armonica, silenzio degli altri suoi complici. Magari con un po' di retorica, ampiamente compensata dall'emozione di tutti i seimila presenti. Troppo è tempo è passato. Grazie comunque, Mister Tambourine Man.

 

da il manifesto

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