di Alberto Burgio
Nell'introdurre il monumentale lessico dei concetti storici fondamentali che articolano il «linguaggio politico-sociale» nel mondo tedesco moderno, Reinhart Koselleck coniò il termine Sattelzeit (letteralmente: «tempo-sella») per definire la fase di transizione compresa tra la crisi dell'Antico regime e la Restaurazione post-napoleonica. Quel periodo (il lungo secolo che corre dalla metà del XVIII secolo al 1870) riformulò il quadro geopolitico e sociale europeo e mondiale, ne ridefinì gli assetti e i rapporti interni, ne riscrisse, sul piano culturale, l'identità e le prospettive.
In qualche misura, la stessa funzione di «sella» (o di valico) può essere attribuita a un altro periodo a noi più vicino: il quarto di secolo che va dalla fine della guerra del Vietnam alla distruzione delle due Torri di New York.
In modo analogo, «fatte le debite proporzioni», anche in questo caso si è verificata una transizione, «al termine della quale il paesaggio intellettuale e politico è apparso radicalmente trasformato».
È questa l'idea posta alla base dell'ultimo libro di Enzo Traverso (Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Feltrinelli 2012 - pp. 238, euro 19) che da qui muove per sviluppare una complessa ricognizione della storiografia contemporaneistica, tesa a un duplice scopo. Da un lato, appunto, misurare l'ampiezza e la profondità di una riconfigurazione della realtà che ha dato forma a un «nuovo mosaico» (un ruolo decisivo hanno giocato, su questo terreno, la modernizzazione neoliberista, l'implosione del bipolarismo est-ovest e il «risveglio islamico»). Dall'altro, cogliere gli aspetti principali del «nuovo approccio» storiografico al mondo contemporaneo: i tratti salienti del «modo di pensare e di scrivere la storia del XX secolo» (caratterizzato in primo luogo dalla nascita della storia globale, dal ritorno dell'evento e dall'emergere della memoria) che la mutata forma del mondo è venuta plasmando.
Percorsi obbligati
Mostrando piena coscienza delle proprie intenzioni, Traverso indica in apertura le quattro «regole» metodologiche da lui assunte - sulla scia di Arno Mayer - per ordinare la massa di questioni con le quali un'impresa di questo genere deve confrontarsi. Le chiama così: contestualizzazione, storicismo critico, comparativismo, concettualizzazione. Volendo sintetizzare in una massima, si può dire semplicemente: costante attenzione all'intreccio tra contesti materiali e campi discorsivi, nella consapevolezza di dovere utilizzare modelli concettuali («tipi ideali») ma di dovere anche tener fermo l'ancoraggio a uno «zoccolo fattuale» (contro la via di fuga nel pantestualismo del linguistic turn).
Del resto, la scelta dei temi alla luce dei quali vagliare i risultati della recente storiografia sul contemporaneo rende in qualche modo obbligata questa strada. Alle prese da tempo con la genealogia della violenza che ha insanguinato il secolo scorso, Traverso torna in queste pagine a interrogare realtà e storiografia (l'una tramite l'altra e viceversa) tenendo saldamente tra le dita il filo rosso della propria ricerca: l'indagine, in primo luogo, sulle violenze di un'epoca globale; quindi la vicenda dell'esilio delle vittime e degli scambi culturali che esso ha favorito, e lo studio dei rivolgimenti - «rotture improvvise, folgoranti» - che hanno costellato il Novecento.
È sin troppo ovvio che sarebbe impossibile rappresentare qui, in miniatura, l'intero reticolato che il volume sviluppa in otto densi capitoli. Basti, a dare un'idea, un rapido cenno agli argomenti trattati. Il primo capitolo discute l'opera di Eric Hobsbawm ponendone in rilievo la duplicità (storia «dal basso» di subalterni e ribelli; storia «dall'alto» nelle grandi sintesi che hanno reso celebre il loro autore) e, criticamente, l'ispirazione fondamentalmente eurocentrica: Hobsbawm - per Traverso un «comunista tory» - sottovaluta la portata epocale della decolonizzazione, nella quale non legge la trasformazione dei popoli colonizzati in soggetti politici.
Una prospettiva aperta
Resta la rilevanza della tetralogia culminata in quel Secolo breve («scritto da un vinto che non rinnega la propria causa») che anche per Traverso è un riferimento obbligato. E resta il pregio di una prospettiva aperta, sottratta - in quest'ultima opera - a qualsiasi visione teleologica della storia. Non si può dire altrettanto, a giudizio di Traverso, per l'interpretazione delle rivoluzioni fornita da François Furet nella Critica della rivoluzione francese (1978) e nel Passato di un'illusione (1995): una lettura grevemente teleologica, incentrata sulla tesi «revisionistica» del continuum rivoluzionario come eruzione di una violenza sterminatrice alimentata dall'insania «ideocratica» delle utopie palingenetiche (la «rigenerazione» illuministica, la creazione dell'«uomo nuovo» nella prospettiva del comunismo).
Dalle rivoluzioni alla controrivoluzione: il terzo e il quarto capitolo passano in rassegna alcuni nodi della storiografia sul fascismo e il nazismo. In primo luogo, l'assai dubbia pertinenza dell'idea di «rivoluzione fascista» (tornata di moda per effetto della caduta delle «utopie» rivoluzionarie, per l'affermarsi di una storiografia politico-centrica e - nel caso di Emilio Gentile - per la discutibile tendenza a identificare la realtà del fascismo con la sua autorappresentazione). Quindi, l'irrisolta ma feconda tensione tra eccezionalità della Shoah e «normalità» del nazismo, focalizzata nell'importante carteggio intercorso nel 1987 tra Saul Friedländer e Martin Broszat.
Responsabilità e speranza
Il discorso sullo sterminio ebraico si allarga (nel quinto capitolo) alla vexata quaestio delle presunte analogie tra l'universo concentrazionario nazista e l'arcipelago gulag; e alla comparazione tra nazismo e stalinismo sullo sfondo della controversa tesi totalitaristica. Traverso è in proposito assai netto e, con inoppugnabili argomenti, sottolinea - riprendendo nientemeno che Raymond Aron - le differenze («due modelli antinomici di razionalità»; due progetti incommensurabili, volti, l'uno, allo sterminio puro e semplice; l'altro, alla trasformazione coercitiva della società) che una storiografia propagandistica - o soltanto mediocre - tende a obliterare. Di qui, per finire, un'attenta discussione sull'uso storiografico della biopolitica foucaultiana (con un lucido attacco alla metafisica «piattamente teleologica» di Giorgio Agamben); una panoramica sul contributo storiografico degli esuli (forti di uno sguardo estraniato e tanto più acuto); un'analisi dei rapporti tra storia e memoria e tra speranza e responsabilità.
Come si vede, un percorso complicato, che mette in connessione problemi di prima grandezza, ineludibili nella costruzione di una idea complessiva del nostro tempo e delle sue potenzialità. Con una cifra specifica, che connota il lavoro di Traverso, rendendolo sempre più vivo e più aperto. Sottende il suo sguardo un'opzione etica, politicamente motivata: l'idea che la storiografia debba non soltanto sapere da che punto di vista produce le proprie narrazioni, ma anche scegliere da che parte stare nel conflitto tra dominanti e subalterni, tra vincitori e vinti.
Gli storici che «appartengono al campo dei vinti», scrive Traverso, «riesaminano il passato con uno sguardo più penetrante e critico». E, nel leggere in questa prospettiva il presente, danno - aggiungiamo noi - un rilevante contributo alla lotta per superarlo.
da il manifesto