di Tommaso Di Francesco

Molti si indigneranno, altri esulteranno probabilmente a seconda della collocazione geografica europea. E poi, di che sorprendersi non l'hanno dato forse anche a provati guerrafondai come Henry Kissinger? Un fatto resta certo: la decisione a sorpresa di assegnare il Nobel della pace all'Unione europea con la motivazione che «l'Unione e i suoi membri per oltre sei decenni hanno contribuito al progresso della pace» rappresenta probabilmente la più grossa operazione di maquillage politico nella storia delle istituzioni del Vecchio continente, almeno dal dopoguerra ad oggi.

Per il momento scelto, per i soggetti che la propongono: faceva impressione che ad annunciare il Nobel per la pace fosse il portavoce del Comitato di Olso, Thorbjoern Jagland, segretario generale del Consiglio d'Europa che, certo è istituzione diversa dall'Ue, ma comunque ne è parte costitutiva. E infine per le motivazioni addotte.
Sorprende infatti il momento scelto della massima impopolarità dell'Ue, quello che mostra l'incredulità e la rabbia di milioni di cittadini europei verso l'Unione che si è costruita solo intorno ad una moneta.
Che ha assunto da tempo i «mercati» e la finanza come veri interlocutori dei processi di unificazione, fino alla primazia dello spread e del fiscal compact, e che scarica i costi della crisi del capitalismo globalizzato, tagliando storici welfare quanto concrete esistenze umane. Gli europei, in sostanza, vedono la distanza tra, da una parte, la promessa europeista dei padri fondatori, che dal dopoguerra ha di fatto innervato le democrazie dei vari paesi fino a proporre l'avvento dell'Unione europea come alternativa al mondo diviso della Guerra fredda; e dall'altra l'attuale status istituzionale del processo di unificazione. Vale a dire quell'«Europa reale» che contrappone paesi «cicale» virtuosi a «formiche» spreconi. Quell'Europa dove è in corso una vera e propria guerra di classe contro i lavoratori e i ceti popolari. I quali vanno rabboniti che, nonostante il disastro economico e la loro miseria, comunque sul Continente in questi decenni non c'è stata la guerra. Fosse vero sarebbe importante, ma non è stato così.
Giacché non in un altrove indefinito e nei secoli passati, ma venti anni fa e nel suo sud-est balcanico, l'Europa ha riattivato, con l'aiuto dei nazionalismi interni, il ritorno della guerra nel Vecchio continente e con essa della frattura storica tra Germania e Francia che ora la motivazione del Nobel nega. Maastricht era ancora un nome impronunciabile e c'era ancora la Cee. L'Ue allora nascente istituì la commissione Badinter (ex ministro degli esteri francesi che la presiedeva), che decise a fine 1991, di fronte alle possibile esplosioni dell'Urss e della Federazione jugoslava, che non si dovevano riconoscere indipendenze di stati proclamate con la violenza, unilateralmente, con metodi antidemocratici ed escludenti. Dopo due mesi la Germania (e il Vaticano) riconobbe le indipendenze di Slovenia e Croazia che si proclamavano in armi nazioni sulla base dei principi etnici della «slovenicità» e della «croaticità». Mentre ancora esisteva, con seggio all'Onu, la Federazione jugoslava. Era facile immaginare che sarebbe accaduto nella minijugoslava Bosnia-Erzegovina. L'Europa da quel momento in poi costruì la sua unione e legittimità sulle ceneri della Jugoslavia multietnica: ogni paese europeo infatti divenne protettore contrapposto dei nuovi stati etnici in guerra. Verso la Jugoslavia invece non arrivò mai dall'Europa il messaggio che era giusto attendersi: «Entrerete nell'Ue solo se rimarrete uniti».
Che dire poi del fatto che non esiste alcuna politica estera dell'Ue e che il disastro mediorientale vede l'assenza di ogni intervento europeo sul diritto allo Stato palestinese, continuamente negato con l'occupazione militare da Israele, con il quale invece ha stabilito un patto militare. Che dire dello smacco subìto nel 2004, quando i paesi dell'Est Europa andarono tutti in guerra in Iraq nell'alleanza dei volenterosi di Bush. È stata una prova diretta di come l'Ue ha gestito i processi del dopo '89, del ruolo antidemocratico della Nato, istituzione a guida statunitense e di surroga sulle crisi internazionali. Della quale nessuna democrazia europea ha mai realmente discusso e alla quale l'Ue delega le guerre fuori-Europa, basta chiamarle «umanitarie». Paesi dell'Est diventati assai poco «europei», quanto a stabilità politica ed economica, standard sociali, diritti umani, esercizio di democrazia (vota meno della metà dei cittadini, l'astensione ovunque è il primo partito).
Ultima testimonianza del trucco-parrucco dell'«avere garantito la pace», la Fortezza Europa nata a partire dai Trattati di Shengen che hanno aperto il fronte dei respingimenti dell'immigrazione disperata, manu militari e con un «muro» di migliaia di chilometri fatto di fili spinati, pattugliamenti e blocchi a mare, campi di concentramento, che si stende ormai dalla Spagna fino alla Slovenia e include, naturalmente, l'Italia.
L'Europa sovranazionale resta il terreno fondamentale per un processo di lotte per la trasformazione democratica. Ma è proprio la promessa di un'Europa unita e sociale, non solo una moneta, centrata sul lavoro e sul welfare, forte della difesa dei diritti umani, aperta al sud del mondo a partire dai suoi sud, che è finora stata mancata. Mentre l'Europa neoliberista ha invece messo in un angolo la democrazia e la gestione della crisi rischia di indebolirla ancora di più. E non basterà il trucco-parrucco del Nobel della pace.

 

da il manifesto

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