Introduzione di Ezio Locatelli, segreteria nazionale, responsabile organizzazione Prc-Se.
Grazie ai compagni e alle compagne che hanno raccolto l’invito ad essere presenti a questo momento di riflessione. Il tema è come sia possibile uscire in positivo dalla crisi che investe il modo di intendere e di fare la politica, con particolare riferimento alla crisi della forma partito.. Terremo tra non molto il X Congresso nazionale di Rifondazione Comunista. L’auspicio è che la discussione odierna, una discussione che facciamo in forma aperta, interlocutoria, possa rappresentare un’utile tappa di avvicinamento a questo nostro Congresso ma, più in generale, un’occasione di approfondimento sul processo di rifondazione di cui necessita la sinistra nel suo insieme, parlo ovviamente di quella sinistra che non ha rinunciato ad una prospettiva di alternativa e di trasformazione sociale.
Dico subito che nell’affrontare il tema non abbiamo bisogno di far ricorso a mezzi termini. La portata dei mutamenti di questi anni dei processi di produzione, dei rapporti sociali, delle forme istituzionali della rappresentanza è di tale ampiezza da segnare un vero e proprio passaggio d’epoca. Ciò che è venuto a mancare in questi anni è una corrispondenza tra i mutamenti intervenuti e le forme, le modalità dell’agire politico. Il senso di spiazzamento, di impotenza, di frustrazione presente nella sinistra deriva anche da questa mancata corrispondenza, – con corrispondenza non voglio certo dire rispecchiamento – dall’incapacità di elaborare e di compiere un vero e proprio salto di paradigma politico.
Su questo punto bisogna intendersi. Parlare di nuovo paradigma non significa certo la messa in discussione dell’esistenza di organismi di azione collettiva. Come ben sappiamo per i capitalisti le cose funzionano diversamente. I capitalisti che si organizzano per imporre la cultura d’impresa, come cultura di governo, possono benissimo fare a meno di questi organismi. Possono avvalersi, com’è avvenuto in questi anni, di partiti leggeri, personali, al sevizio dei leader. Di partiti populisti. Sono d’accordo con Aldo Bonomi quando dice “il populismo come forma della politica della crisi si alimenta della lotta di classe dall’alto e del conflitto impolitico frammentato dal basso”. I capitalisti possono avvalersi di queste forme perché dietro c’è la forza pesante del denaro, dei capitali, della proprietà dei mezzi di produzione e di comunicazione. C’è la potenza di fuoco di una organizzazione e di una forza materiale.
C’è un altro punto che vorrei richiamare per capire ciò che è avvenuto. Il capitalismo sopravvive a se stesso, alla sua crisi sistemica, grazie anche alla dispersione dei suoi antagonisti. Il fenomeno è stato analizzato quindici anni fa da Zygmunt Bauman in “modernità liquida”, di cui cito un passaggio significativo: “la disintegrazione di efficienti organismi di azione collettiva … è al contempo una condizione e il risultato della nuova tecnica del potere”. E più oltre: “Qualsiasi rete densa e fitta di legami sociali e in particolare una rete profondamente radicata nel territorio è un ostacolo da eliminare”. Questo, esattamente, è quanto avvenuto in questi anni, soprattutto con l’emergere di una vocazione totalitaria del capitalismo finanziario. È avvenuto in vari modi e su diversi piani. Sul piano dello scontro sociale, innanzitutto, che nell’epoca del ripristino del primato dell’economia capitalistica, della “lotta di classe dopo la lotta di classe”, ha mirato ad una sistematica destrutturazione del mondo del lavoro, a distruggere le basi materiali di una coscienza e di una volontà collettiva. È avvenuto altresì sul piano dell’alterazione di qualsiasi pratica democratica, della tendenziale privatizzazione delle istituzioni. Gli economisti di J.P. Morgan lo hanno detto apertamente: perché il neoliberismo possa sopravvivere la democrazia deve dissolversi. Come avete visto abbiamo aperto con questa festa la nostra campagna per il NO alla manomissione della Costituzione. Questa manomissione non è semplicemente un problema di tecnica giuridica. Trattasi di un’operazione, ultima in ordine di tempo, con un segno di classe preciso – come testimonia, tra gli altri, il SI di Marchionne e di tutto il padronato – volta ad una riappropriazione di potere da parte delle classi dominanti sotto le mentite spoglie della modernizzazione.
Per dire di quale modernizzazione stiamo parlando faccio ricorso ancora alle parole di Bauman: “rappresentare i propri membri come individui è il marchio di fabbrica della società moderna”. Spietata la traduzione politica di questo assunto che fece Margaret Thatcher: “Non esiste la società, esistono gli individui”. Con ciò si affermava la volontà di attuare la privatizzazione delle relazioni sociali. Non penso ci sia bisogno di aggiungere altro per dire di una guerra di classe dell’alto contro il basso che negli ultimi trent’anni si è posta l’obiettivo di disgregare le classi subalterne, di privarle di una rappresentanza autonoma e, in questo contesto, di operare per la fine delle forme partecipative, tra queste la democrazia dei partiti. Va riconosciuto: obiettivo grandemente raggiunto. Che fare per cercare di uscire da questa situazione?
Uno che in maniera apparentemente trasgressiva attinge a piene mani al mondo postfordista fluido, individualizzato, che proclama la necessità di liberarsi dall’ingombro dei partiti, del sindacato, dalle identità predefinite, che prospera sulla disintegrazione della rete sociale è il capo del M5S, Beppe Grillo. Mi colpì molto due anni fa il suo esordio ad un comizio in Valsusa quando disse: “giù le bandiere No Tav”, per dire: abbassate ogni bandiera che non sia quella del M5S. Anche il suo è un cambio di paradigma politico ma un cambio funzionale al pensiero neoliberista che lavora allo svuotamento dello spazio pubblico e al superamento di ogni linea di demarcazione tra destra e sinistra con tutti i pasticci e le contraddizioni del caso, come sta emergendo al Comune di Roma. Al posto della democrazia dei partiti, degli agglomerati sociali, delle strutture collettive quella praticata dal M5S è l’idea dei cittadini interconnessi dalla rete. È la cosiddetta democrazia digitale che fa apparire come superfluo il piano dell’impegno collettivo. Ridursi a parlare di individui, della loro libertà di scelta, significa parlare di una sola e unica condizione sociale col risultato di non vedere più classi differenziate per condizione sociale, aggregabili in una causa comune, significa – lo si voglia o meno – consegnarsi ai poteri forti, agli interessi privati.
Ora io penso che queste linee di tendenza vadano contrastate, combattute. Vale più che mai quanto diceva Antonio Gramsci: la rivoluzione è legata alla capacità di unire, anzi di unificare le masse sottraendole all’atomizzazione e alla dispersione in cui le riduce sistematicamente il capitalismo. Per questo penso che mettere insieme, giorno dopo giorno, i tasselli di resistenza civile e culturale, riorganizzare le forze per una rifondazione comunista, costruire una soggettività unitaria della sinistra antiliberista rappresenti un impegno fondamentale, di grandissima attualità, se non si vuole parlare a vuoto.
In che cosa consiste allora il cambio di paradigma politico di cui dicevo all’inizio? Anche se col rischio di un eccesso di semplificazione credo che consista essenzialmente nell’agire una critica alla separatezza della politica per come è venuta avanti in questi anni. Per dare conto di quanto pesi questa separatezza mi rifaccio alla fotografia fatta da Demos nel suo ultimo rapporto annuale. Una fotografia impietosa che dice di una fiducia riposta nei partiti ai minimi termini, il 5% degli intervistati, di appena il 10% nei confronti del Parlamento di contro all’85% di fiducia a Papa Bergoglio e al 68% di fiducia alle forze dell’ordine. E ancora: il 48% degli elettori considera che la democrazia può funzionare senza partiti di contro al 45% che pensa il contrario e a un 7% che non risponde. Una crisi di fiducia e di credibilità della politica cui siamo dentro tutti fino al collo. Anche la sinistra nelle sue diverse sfaccettature. Tante le motivazioni: dissoluzione dei grandi progetti di trasformazione, subalternità agli interessi dominanti, abbandono del terreno dello scontro sociale sul terreno dei bisogni materiali, resa ad uno scenario liquido di sconfitta e di dissoluzione dei grandi aggregati sociali. Una resa che ha avuto nel parlamentarismo, nelle istituzioni, nella “mediatizzazione” della politica – la politica fatta in televisione – il sostituto fittizio della sovranità popolare e dell’agire sociale.
Limiti ed errori soggettivi ma senza perdere di vista i problemi oggettivi attinenti ad una perdita di legittimazione dei partiti e dei sindacati. Una perdita originata dalla impermeabilità, opposta dagli apparati politici e burocratici, alle domande e ai bisogni sociali. Apparati con una connotazione sempre più oligarchica dove la politica è espressione del denaro, del potere, del privilegio. Risultato: una separazione ed una distanza sempre più grande tra i luoghi e le figure della rappresentanza ed i luoghi e le istanze della vita, le istanze di giustizia e di eguaglianza sociale. Ecco, una rinascita della sinistra deve essere pensata in questo quadro in cui è ormai aperta una questione di legittimità del sistema, in cui la democrazia rappresentativa, le istituzioni hanno mutato natura e logica di funzionamento
Per questo, più che ad una organizzazione concepita per gestire i processi istituzionali – questo il limite di Sinistra Italiana che non la porterà da nessuna parte – noi dobbiamo puntare a riguadagnare per il nostro partito e più in generale per la sinistra, una funzione organizzatrice, di aggregazione politica, di formazione di un orientamento di massa. In che termini? Investendo sulla ripresa di un movimento di lotta politica, sociale, culturale che rompa con i luoghi comuni e i depistaggi, che rovesci la crisi su chi la produce. Investendo sulla ricostruzione di relazioni sociali, su pratiche di resistenza e solidarietà come fondamento di una politica di trasformazione. Io credo che sia questa la domanda. Far agire le idee nella realtà come mi sembra in un certo qual modo si è visto nella risposta di grande solidarietà nei confronti delle popolazioni colpite dal recente terremoto, tra cui la risposta messa in campo dalle Brigate di Solidarietà. Certo anche in forme spurie, prepolitiche ma non per questo meno significative. C’è bisogno di una sorta di comunismo allo stato pratico che ci definisca come coloro che nel modo di lottare, di organizzarsi già affermano principi alternativi di egualitarismo, di solidarietà, di giustizia.
Il che, sia detto, non significa sprofondare nell’autonomia del sociale, rinunciare ad essere presenti nelle istituzioni, a battersi per una loro democratizzazione. Questo sarebbe un altro modo di essere subalterni. Il problema semmai è riguadagnare tutta la diversità di una presenza critica volta a favorire l’apertura di spazi di movimento, partecipazione, autorganizzazione, a contrastare per questa via la forza dissolvente di un rapporto di pura rappresentanza.
Concludo: la condizione con cui dobbiamo misurarci oggi non è la scomparsa dell’area del dissenso, del rifiuto, dell’antagonismo ma la sua dispersione e la sua spoliticizzazione. Un’area che di per sé non riesce a rappresentare un programma, una forza definita. È in ragione di ciò che dobbiamo tornare a considerare prioritario il lavoro di ricomposizione e politicizzazione del sociale. Un lavoro di lunga lena sapendo che nell’attuale situazione di crisi-mutamento non ci sono autostrade aperte da percorrere. Tuttavia un lavoro che va fatto con forza di volontà, fiducia, progettazione. Sono convinto, infatti, che nonostante le apparenze stiamo vivendo un momento di possibilità, stiamo vivendo l’inizio della dissoluzione di un sistema che ha fallito. In questa situazione non c’è ragione di scoraggiarsi, dobbiamo tornare ad essere utopisti – utopisti con i piedi ben piantati per terra – senza vergogna. Il che significa, oltre ad avere spirito unitario ed un grande senso di apertura, salvaguardare e far valere anche la nostra diversità di comuniste e comunisti, impegnati a dare una risposta di civiltà, di futura umanità, senza timidezza o chiusura alcuna. Oggi, più che mai, vale il detto: continuons le combact.