di Elena Mazzoni* -
Il mare tra Gela e Licata è ricco di pesci e di vita, sulle sue coste si affaccia la riserva naturale orientata del lago di Biviere, di cui Plinio il Vecchio cantò i riflessi lunari e che è punto di sosta dell’aviofauna in volo dal Nord Africa. Qui, tra un sarago e un tonno, un airone e un cavaliere d’Italia, un martin pescatore ed una volpe; in mezzo a cooperative di pescatori, bambini che giocano a palla e persone che si tuffano tra le onde cristalline, l’Eni, multinazionale tra le prime dieci compagnie petrolifere al mondo, ottenne, nel 2013, i permessi per il programma “Offshore Ibleo”.
Lo scopo era la riapertura di due giacimenti marini già esistenti, Argo e Cassiopea, profondi 600 metri e a distanza di pochi chilometri dalle coste. Un progetto completo: esplorazione, estrazione, trasporto e raffinazione del gas metano contenuto in quei giacimenti. Costo dell’operazione? Un miliardo di euro per produrre, in circa 15 anni, oltre dieci miliardi di metri cubi di metano, gas che Eni progettava di portare per la raffinazione nell’impianto ex-petrolchimico di Gela.
Evidenti gli impatti sul territorio, denunciati anche da Greenpeace nel 2014 in un dettagliato rapporto in cui traspare l’assenza di una seria valutazione dei rischi ambientali e delle conseguenze socio-economiche. Il progetto ricade sull’area di riproduzione di acciughe, gambero bianco e nasello, ma questo ad Eni e Commissione Via non sembra essere interessato. Bocciati, in seguito, anche i ricorsi dei comuni, dell’intera Anci Sicilia e dei comitati ambientalisti.
Poi il progetto si arenò, sostituito da altri più convenienti, ma oggi Eni torna a battere cassa, con tutta la forza del padrone e del capitale, con il ricatto del lavoro e del progresso, con la promessa della – già ampiamente fallita – green energy.
Torna e chiede la posa di un gasdotto, che vada dai pozzi off-shore al centro di collettamento di Gela. Il tutto riconvertendo il dismesso petrolchimico – che nel 2014 ha lasciato a casa 10mila persone tra addetti ed indotto, in un territorio dove si lavora per paghe inesistenti, dove la disoccupazione giovanile supera il 60% e quella femminile è al 57% – in una raffineria di gas metano.
Una struttura che diverrebbe il terzo gasdotto dell’isola insieme al Transmed algerino-tunisino e al Greenstream libico. La Sicilia si appresta a diventare il luogo di stoccaggio del gas metano, invasa da navi, centrali di raffinazione, cisterne, serbatoi, condotte, e il centro nevralgico di una vasta operazione economica per il capitale internazionale.
«Il nostro mare è di nuovo sotto attacco – scrive il comitato No Triv di Licata, in una nota -. Già siamo scesi in piazza e grazie alla lotta siamo riusciti a impedire la realizzazione della piattaforma Prezioso K, nell’ambito del progetto off-shore ibleo di Eni. Tuttavia, tale progetto, sebbene modificato, continua ad essere dannoso e rappresenterebbe, qualora realizzato, una potenziale bomba ecologica a due passi dalla nostra costa».
Un’autostrada di metano passerà nel mare.
Passerà in quel mare, sotto quei pesci, sfiorando pericolosamente le sacche di metano e i crateri di fango, che lo pongono a rischio vulcanico sedimentario. Passerà sotto le barche con le reti colme di tonni e i bambini che nuotano. Sotto le cinque piattaforme situate tra Licata, Gela e Pozzallo. Cinque moderne e mostruose palafitte che estraggono idrocarburi mettendo a rischio ambiente, economia, territorio, turismo.
Tutto questo tra l’immobilismo del Movimento 5 stelle e le rassicurazioni della Lega al mondo dell’Oil & gas. Contro tutto questo, contro la propaganda e le false promesse, mente nuove concessioni spuntano nello Ionio e a Ravenna, i comitati No Triv scendono in piazza a Licata sabato 12 gennaio, perché “u mari un si spirtusa!”.
* Elena Mazzoni è responsabile nazionale ambiente Partito della Rifondazione comunista-Sinistra europea