di Rifondazione Comunista - Segreteria regionale Fvg -
La recente proposta lanciata da don Pierluigi Di Piazza di ripopolare la montagna friulana prendendo ad esempio il modello Riace è una suggestione che merita di essere considerata.
Noi siamo per il meticciato, perché crediamo che sia il sale dell’umanità e perché pensiamo che sia l’unico futuro possibile.
Ma accogliere la proposta di don Di Piazza significa anche entrare nel merito, discuterla, ampliarla, individuarne i punti di forza e i punti deboli, aprire un ragionamento collettivo che la possa inserire in un quadro organico.
Rifarsi al modello Riace significa comprendere che esso è stato costruito attraverso il coraggio esemplare di un sindaco e della sua giunta che hanno ritenuto di procedere al ripopolamento del loro comune accogliendo e stabilizzando migranti in assoluta controtendenza rispetto agli stessi assetti istituzionali e spingendosi talvolta a forzare la stessa legalità.
E’ un modello di azione che noi abbiamo difeso e difendiamo perché la così detta legalità non è (storicamente) un assoluto ma soprattutto perché i risultati di questa azione sono stati eccezionali e riconosciuti tali anche a livello internazionale.
Tuttavia è proprio nell’eccezionalità di quell’esperienza che si restringe la possibilità di assurgerla immediatamente a modello.
In questo senso pensiamo che il tema dell’accoglienza (tanto più in questa fase politica) non debba essere posto come approccio principale per affrontare le tante problematiche che affliggono la montagna ma come uno dei tasselli che con pari dignità possono e devono comporre una visione più generale, una proposta di intervento organica.
La montagna vive un’annosa condizione di sottosviluppo strutturale (con qualche rarissima eccezione) e lo spopolamento galoppante è l’ostacolo più grande da affrontare per immaginare una qualsiasi ripresa e uscita reale dal ciclo negativo.
Risulta evidente che senza una corposa inversione della tendenza demografica, senza cioè una ripopolamento massiccio (per intenderci: alcune migliaia di unità distribuite tra Carnia, valli pordenonesi e valli del Natisone) non potrà mai rifiorire nessuna economia locale in grado di aggredire e risolvere il sottosviluppo di cui sopra con il portato di decadimento sociale, culturale e identitario che tutti conosciamo.
Lo storytelling che vede nel pionierismo giovanile-imprenditivo la chiave di volta della possibile svolta è, per molte ragioni che abbiamo potuto vedere e vivere, fuorviante. Diventa al contrario utile se inteso per quello che è ossia come un segnale di potenziale disponibilità a ripensarsi (esistenzialmente ed economicamente) nella crisi generale.
Siamo convinti che in un quadro sistemico ipercompetitivo globalizzato, in un tessuto socio-economico dissolto, rarefatto quando non completamente a gambe all’aria com’è quello delle terre alte, iniettare microimprese di giovani coppie significa principalmente promuovere esperienze destinate per lo più all’autosfruttamento che scoppiano o implodono non appena si prosciuga la linea contributiva o semplicemente quando nasce un figlio.
E anche dove le start up resistono a questa mannaia, si tratta di unità numericamente insignificanti rispetto alla necessaria inversione di tendenza. Che queste start-up siano animate da migranti o che gli stessi possano trovare lavoro presso queste micro realtà produttive, l’esito tendenzialmente non cambia.
Pensiamo quindi che bisognerebbe arrivare ad immaginare, per le terre alte, la messa in campo di misure eccezionali perché eccezionalmente grave, al di là delle analisi desideranti, è lo stato di fatto (lo ripetiamo: sottosviluppo strutturale).
Bisognerebbe arrivare a costruire una proposta che preveda l’istituzione di Zone economiche speciali, non per trasformare le nostre montagne in praterie della speculazione neoliberista, ma per creare il contesto utile all’insediamento delle microimprese di cui sopra, al pieno dispiegamento della risorsa del turismo lento, alla messa in campo di concrete esperienze di innovazione sociale come l’autogoverno cooperativo di filiere energetiche, alla disponibilità dei servizi pubblici e del privato sociale che solo con adeguati numeri possono eventualmente “rifiorire”.
Misure eccezionali non “ad infinitum” ma contingentate dal raggiungimento di un adeguato e prestabilito orizzonte demografico e socio-economico.
Misure legate non solo alla defiscalizzazione (di imprese e lavoro dipendente) e a pacchetti agevolativi di varia natura ma rivolte ad implementare la reale ripresa dell’economia locale e della socialità generale.
Misure che possano lasciare sul terreno, una volta sospese, Zone energeticamente autonome e riqualificate, territori tenuti in ordine da una manutenzione sistematica, nuove comunità cooperanti, nuove identità auspicabilmente anche più avanzate ed evolute di ciò che si può produrre in una brulicante e sofferente metropoli.
In questo senso le due risorse acqua-foreste (con la declinazione energetica sostenibile) potrebbero essere individuate come le risorse primarie a disposizione, come leve strategiche in mano ai nuovi montanari per ridisegnare una esistenza organica, riempita finalmente di senso.
E se pensiamo all’idroelettrico esistente, nello specifico, parte della finanza che servirebbe per implementare le misure di cui sopra potrebbe essere reperita lottando affinché la nostra Regione sospenda definitivamente la cessione a rendita di tale risorsa a multinazionali o multi utility di varia natura e ne assuma la gestione.
In questo quadro generale i nuovi montanari saranno, necessariamente, immigrati. Immigrati interni o da altri Paesi.
-In questo quadro generale potrebbe finalmente decollare l’attuazione concreta della Legge regionale sui Distretti di economia solidale.
-In questo quadro generale il modello Riace potrebbe essere fisiologicamente applicato.
Certo si tratta di un piano ambizioso (e di respiro anche nazionale) che dovrebbe essere dibattuto, condiviso, costruito, diffuso e spinto da un ampio fronte di soggetti (enti locali, cooperazione, associazionismo, forze sindacali e politiche).
Questo progetto, come ogni grande innovazione (tanto più sociale), potrebbe incontrare delle resistenze, ma come ogni battaglia che valga la pena di essere intrapresa potrebbe permetterci di sperimentare il futuro. Sperimentare il futuro partendo dalle periferie di una regione periferica.
Un futuro altro da quello plumbeo e cupo che l’attuale fase politica sembra prospettare.
Incontriamoci, apriamo un ragionamento partendo dalla nostra montagna e dal suo stato di fatto.