Nella legge 28.6.2012 n. 92 (riforma del mercato del lavoro) si evidenzia l’intento di operare un capovolgimento dei principi costituzionali, attraverso la surrettizia controriforma dei suoi valori cardine.
Questa legge, infatti, ha di mira l’incondizionato sostegno alle sorti magnifiche del mercato il che significa obliterare il diritto al lavoro, come bene risulta, anche, dall’incauta affermazione (o dichiarazione di verità) della Ministra Fornero: il lavoro non è più un diritto.
Infatti, l’art. 1 della legge n. 92 chiarisce che il bene di riferimento è “il mercato del lavoro”. Privilegiare il mercato del lavoro ha lo stesso senso del noto concetto “Siamo tutti nella stessa barca”, prescindendo da chi voga in sentina e chi occupa il ponte di comando.
Nel rapporto capitale-lavoro – che si gioca nel mercato – l’art 1 della Costituzione ha inteso conferire maggior valore al termine lavoro, mentre la legge in esame tutela l’entità ove si svolge una partita impari, del tutto sfavorevole a chi non possieda mezzi di produzione o capitale finanziario.
La controriforma Monti-Fornero non è certo un fulmine a ciel sereno, anzi, essa rappresenta, una sorta di norma di chiusura rispetto alla normativa che, negli ultimi trent’anni, si è incaricata di annullare le riforme di adeguamento costituzionale del diritto del lavoro, operato negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. I riferimenti sono molteplici: la cancellazione del collocamento pubblico numerico e imparziale in favore della scelta nominativa introdotta dalla L. 609/1996 (pacchetto Treu), la privatizzazione delle agenzie per l’impiego del DLgs 276/2003 (legge Biagi), in altri termini, la legalizzazione delle assunzioni per scelta discrezionale padronale che ha avuto come esito la discriminazione delle donne e dei giovani.
In tempi più recenti porta ad ulteriore effetto il disegno anticostituzionale, il D.L. 138/2011 che all’art. 8 stabilisce la derogabilità degli accordi collettivi nazionali e persino delle leggi dello Stato da parte di accordi sindacali aziendali o territoriali, vincolanti anche per i lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti. E qui si affaccia per la prima volta la possibile deroga (o annullamento) alle disposizioni dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori. Sulla stessa linea si pone l’accordo interconfederale 28.6-21.9.2011 che estende a tutti i lavoratori, iscritti e non alle organizzazioni stipulanti, l’efficacia della contrattazione aziendale, malgrado ciò contrasti con la previsione dell’art. 39 della Costituzione che esclude tale possibilità per le attuali organizzazioni sindacali.
La recente legge porta a compimento l’opera di distruzione svuotando la sostanza dell’art. 18 S.L., dando sostanzialmente via libera ai licenziamenti ingiusti e arbitrari dietro corresponsione di una scarsa mercede. Rimosso l’architrave della stabilità reale nel posto di lavoro, ogni altro diritto nel rapporto verrà meno perché per timore non sarà rivendicato.
Come è stato già detto, la tutela attenuata dell’art. 18 rende più facili anche i licenziamenti discriminatori, circostanza gravida di conseguenze negative in particolare per le donne. L’occupazione femminile, secondo dati ISTAT, ha subito un calo del 12,7% nel biennio 2008-2010 mentre l’occupazione maschile è calata del 6,3%. Le donne sono anche maggiormente colpite dal triste fenomeno delle dimissioni in bianco che la legge in esame sottopone a convalida attraverso una procedura accidentata e dai tempi incerti, resa più problematica dalla previsione brevi termini di decadenza.
In alternativa, è prevista una firma di convalida della lavoratrice in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione effettuata dal datore. La maggiore semplicità e l’evidente possibilità di influire sulla manifestazione di volontà di chi si trova in posizione subordinata, sottoposta a ovvie pressioni e priva di assistenza sindacale, renderà evidentemente preferibile la scelta di questa seconda via. Le conseguenze saranno ancora una volta svantaggiose per la parte debole del contratto di lavoro.
Secondo le dichiarazioni governative, la legge favorirebbe la “flessibilità in entrata”. In effetti, l’art. 1 menziona l’intento di “contribuire alla creazione di occupazione”, ma la lettura del testo convince che l’operazione si riduce a favorire i licenziamenti sottraendo diritti (durevolmente, ora per allora) a chi se li era conquistati.
Restano inalterate le 46 tipologie contrattuali, un record mondiale, che sono state create da leggi succedutesi nel tempo, senza che neppure si tenti una razionalizzazione della materia. Per esemplificare, solo qualche modesto correttivo (su falsi contratti a progetto o false partite IVA) che si limita a recepire una giurisprudenza consolidata. La normativa sui contratti a termine è persino più lassista di quella precedente poiché cancella la necessaria indicazione della causa tipizzata. I disincentivi economici per i contratti “atipici”, l’aumento dei contributi e la complessità delle procedure burocratiche finiranno per penalizzare lavoratrici e lavoratori in cerca di impiego e/o aumenteranno il ricorso al lavoro in “nero”.
La penalizzazione riguarderà specialmente le donne che sono la grande maggioranza fra gli addetti a lavori finti autonomi, quindi non beneficiano di ammortizzatori sociali come la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione: l’ASPI (Assicurazione Sociale per l’Impiego) non le riguarda, in quanto inoccupate.
Quanto alle misure di “conciliazione” per le lavoratrici madri, la durata ridicola dei congedi di paternità (3 giorni) non necessita di commenti. E, quanto al lavoro di cura, non si può dimenticare che questa legge segue l’altra dello stesso governo che ha innalzato l’età pensionabile delle donne, ricavando un risparmio che non è stato destinato a finanziare servizi sociali ad hoc.
Occorre sempre sottolineare che manca in Italia la previsione di una retribuzione minima, circostanza che penalizza i lavoratori precari, quindi principalmente le donne.
Questa previsione è oggi più che mai necessaria e dovrà accompagnarsi, in una logica costituzionale di stato sociale minimo, alla previsione di un reddito di base (basic income) a carattere universale e incondizionato. Entrambe queste misure contribuiscono a riconoscere dignità esistenziale a tutti gli esseri umani, ponendosi come adeguamento costituzionale (art. 38 Cost.), apprezzabile in tempi di controriforme. In particolare, il basic income offre la possibilità di creare alleanze trasversali intergeneri/intergenerazionali, caratteristica che è preziosa perché si pone in controtendenza con la logica mercantile che frantuma le esistenze dei più.
Alcuni aspetti dell’istituto lo rendono favorevole alle donne. Esso è garantito ai singoli e non alle famiglie, riguarda gli esseri umani comunque sessuati e non i nuclei di convivenza tuttora a stretta egemonia maschile, ove il marito dispone normalmente di tutti i beni in virtù del suo sesso. Suppone che ognuna/o sia titolare di un pari diritto esistenziale, indipendentemente dalla collocazione famigliare e sociale. E’, inoltre, favorevole alle donne perché esse sono maggiormente disoccupate, inoccupate, sotto qualificate e sottopagate anche se dotate di laurea e di master, quando riescono a entrare nel mercato del lavoro. Un altro aspetto positivo: viene detronizzato il lavoro per il mercato che cessa di essere l’unica cosa che conta ai fini della piena cittadinanza. (C.Pateman “Freedom and democracy”)
Questo concetto risuona anche alle nostre orecchie di italiane, basta considerare gli art. 1 e 37 della Costituzione repubblicana: un trono al lavoro maschile, uno sgabello a quello femminile.
In altre parole, il basic income costituisce una garanzia sociale capace di districare il legame fra lavoro e guadagno, contribuendo alla modifica di una società imperniata su un bene fortemente sbilanciato e attualmente ridotto al lumicino, il lavoro.
Infatti, l’art. 1 della legge n. 92 chiarisce che il bene di riferimento è “il mercato del lavoro”. Privilegiare il mercato del lavoro ha lo stesso senso del noto concetto “Siamo tutti nella stessa barca”, prescindendo da chi voga in sentina e chi occupa il ponte di comando.
Nel rapporto capitale-lavoro – che si gioca nel mercato – l’art 1 della Costituzione ha inteso conferire maggior valore al termine lavoro, mentre la legge in esame tutela l’entità ove si svolge una partita impari, del tutto sfavorevole a chi non possieda mezzi di produzione o capitale finanziario.
La controriforma Monti-Fornero non è certo un fulmine a ciel sereno, anzi, essa rappresenta, una sorta di norma di chiusura rispetto alla normativa che, negli ultimi trent’anni, si è incaricata di annullare le riforme di adeguamento costituzionale del diritto del lavoro, operato negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. I riferimenti sono molteplici: la cancellazione del collocamento pubblico numerico e imparziale in favore della scelta nominativa introdotta dalla L. 609/1996 (pacchetto Treu), la privatizzazione delle agenzie per l’impiego del DLgs 276/2003 (legge Biagi), in altri termini, la legalizzazione delle assunzioni per scelta discrezionale padronale che ha avuto come esito la discriminazione delle donne e dei giovani.
In tempi più recenti porta ad ulteriore effetto il disegno anticostituzionale, il D.L. 138/2011 che all’art. 8 stabilisce la derogabilità degli accordi collettivi nazionali e persino delle leggi dello Stato da parte di accordi sindacali aziendali o territoriali, vincolanti anche per i lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti. E qui si affaccia per la prima volta la possibile deroga (o annullamento) alle disposizioni dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori. Sulla stessa linea si pone l’accordo interconfederale 28.6-21.9.2011 che estende a tutti i lavoratori, iscritti e non alle organizzazioni stipulanti, l’efficacia della contrattazione aziendale, malgrado ciò contrasti con la previsione dell’art. 39 della Costituzione che esclude tale possibilità per le attuali organizzazioni sindacali.
La recente legge porta a compimento l’opera di distruzione svuotando la sostanza dell’art. 18 S.L., dando sostanzialmente via libera ai licenziamenti ingiusti e arbitrari dietro corresponsione di una scarsa mercede. Rimosso l’architrave della stabilità reale nel posto di lavoro, ogni altro diritto nel rapporto verrà meno perché per timore non sarà rivendicato.
Come è stato già detto, la tutela attenuata dell’art. 18 rende più facili anche i licenziamenti discriminatori, circostanza gravida di conseguenze negative in particolare per le donne. L’occupazione femminile, secondo dati ISTAT, ha subito un calo del 12,7% nel biennio 2008-2010 mentre l’occupazione maschile è calata del 6,3%. Le donne sono anche maggiormente colpite dal triste fenomeno delle dimissioni in bianco che la legge in esame sottopone a convalida attraverso una procedura accidentata e dai tempi incerti, resa più problematica dalla previsione brevi termini di decadenza.
In alternativa, è prevista una firma di convalida della lavoratrice in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione effettuata dal datore. La maggiore semplicità e l’evidente possibilità di influire sulla manifestazione di volontà di chi si trova in posizione subordinata, sottoposta a ovvie pressioni e priva di assistenza sindacale, renderà evidentemente preferibile la scelta di questa seconda via. Le conseguenze saranno ancora una volta svantaggiose per la parte debole del contratto di lavoro.
Secondo le dichiarazioni governative, la legge favorirebbe la “flessibilità in entrata”. In effetti, l’art. 1 menziona l’intento di “contribuire alla creazione di occupazione”, ma la lettura del testo convince che l’operazione si riduce a favorire i licenziamenti sottraendo diritti (durevolmente, ora per allora) a chi se li era conquistati.
Restano inalterate le 46 tipologie contrattuali, un record mondiale, che sono state create da leggi succedutesi nel tempo, senza che neppure si tenti una razionalizzazione della materia. Per esemplificare, solo qualche modesto correttivo (su falsi contratti a progetto o false partite IVA) che si limita a recepire una giurisprudenza consolidata. La normativa sui contratti a termine è persino più lassista di quella precedente poiché cancella la necessaria indicazione della causa tipizzata. I disincentivi economici per i contratti “atipici”, l’aumento dei contributi e la complessità delle procedure burocratiche finiranno per penalizzare lavoratrici e lavoratori in cerca di impiego e/o aumenteranno il ricorso al lavoro in “nero”.
La penalizzazione riguarderà specialmente le donne che sono la grande maggioranza fra gli addetti a lavori finti autonomi, quindi non beneficiano di ammortizzatori sociali come la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione: l’ASPI (Assicurazione Sociale per l’Impiego) non le riguarda, in quanto inoccupate.
Quanto alle misure di “conciliazione” per le lavoratrici madri, la durata ridicola dei congedi di paternità (3 giorni) non necessita di commenti. E, quanto al lavoro di cura, non si può dimenticare che questa legge segue l’altra dello stesso governo che ha innalzato l’età pensionabile delle donne, ricavando un risparmio che non è stato destinato a finanziare servizi sociali ad hoc.
Occorre sempre sottolineare che manca in Italia la previsione di una retribuzione minima, circostanza che penalizza i lavoratori precari, quindi principalmente le donne.
Questa previsione è oggi più che mai necessaria e dovrà accompagnarsi, in una logica costituzionale di stato sociale minimo, alla previsione di un reddito di base (basic income) a carattere universale e incondizionato. Entrambe queste misure contribuiscono a riconoscere dignità esistenziale a tutti gli esseri umani, ponendosi come adeguamento costituzionale (art. 38 Cost.), apprezzabile in tempi di controriforme. In particolare, il basic income offre la possibilità di creare alleanze trasversali intergeneri/intergenerazionali, caratteristica che è preziosa perché si pone in controtendenza con la logica mercantile che frantuma le esistenze dei più.
Alcuni aspetti dell’istituto lo rendono favorevole alle donne. Esso è garantito ai singoli e non alle famiglie, riguarda gli esseri umani comunque sessuati e non i nuclei di convivenza tuttora a stretta egemonia maschile, ove il marito dispone normalmente di tutti i beni in virtù del suo sesso. Suppone che ognuna/o sia titolare di un pari diritto esistenziale, indipendentemente dalla collocazione famigliare e sociale. E’, inoltre, favorevole alle donne perché esse sono maggiormente disoccupate, inoccupate, sotto qualificate e sottopagate anche se dotate di laurea e di master, quando riescono a entrare nel mercato del lavoro. Un altro aspetto positivo: viene detronizzato il lavoro per il mercato che cessa di essere l’unica cosa che conta ai fini della piena cittadinanza. (C.Pateman “Freedom and democracy”)
Questo concetto risuona anche alle nostre orecchie di italiane, basta considerare gli art. 1 e 37 della Costituzione repubblicana: un trono al lavoro maschile, uno sgabello a quello femminile.
In altre parole, il basic income costituisce una garanzia sociale capace di districare il legame fra lavoro e guadagno, contribuendo alla modifica di una società imperniata su un bene fortemente sbilanciato e attualmente ridotto al lumicino, il lavoro.
da Zero violenza donne