121004bulldi Alberto Burgio
Il capitalismo assistito italiano ha trovato in Monti un «santo» in paradiso e si prepara a mantenersi al potere con il bis. Il fronte progressista, invece, arranca in tutta Europa e a tutti i livelli, a cominciare da quello culturale. La storia sembra finita ma stravincere non è vincere: di fronte a tutti noi c'è l'abisso
Evviva Monti! La sua autocandidatura - una sorpresa soltanto per gli ingenui - fa chiarezza nella palude italiana e mette allo scoperto l'unica seria iniziativa politica di questa fase. La crisi organica del berlusconismo ha costretto i suoi mandanti a inventare un grande centro all'altezza dei tempi. Ed eccolo lì, con tanto di capo carismatico e benedizione vaticana, l'embrione della nuova Dc, ombrello protettivo per finanzieri e industriali assistiti, postfascisti e grandi palazzinari. Sbaglieremo, ma la vera novità che sembra profilarsi è l'implosione dello schema bipolare, camicia di forza imposta a un paese strutturalmente tripartito. Bisogna riconoscerlo, quella che il padronato ha realizzato in questi vent'anni è un'operazione geniale.

Il «centro» del potere
L'ingloriosa fine della prima repubblica, travolta dal malgoverno e dagli scandali, avrebbe potuto (e dovuto) sbloccare il sistema politico e avviare un processo di trasformazione in senso democratico. Al contrario, grazie al maggioritario e al bipolarismo, abbiamo avuto Berlusconi, governi «tecnici» garanti dei poteri forti, e la confluenza di gran parte delle forze postcomuniste in un partito a dominanza moderata. Questo processo giunge ora al suo approdo naturale con la rinascita di un centro riveduto e corretto secondo i dettami del dispotismo finanziario, cioè con un più di tecnocrazia e di chiusura oligarchica. In campo moderato c'è consapevolezza del fine e lungimiranza. Dietro Monti si riorganizzano in tempo reale le energie del capitale, smaniose di incassare i dividendi di una campagna moralizzatrice fondata sulla diffamazione del pubblico (ridotto a sinonimo di spreco e malcostume) e sull'apologia del privato (pretesa garanzia di eccellenza e onestà, di merito, produttività ed efficienza).
La disfatta progressista
E l'avversario? Il fronte progressista? Attraversato da tensioni crescenti, il centrosinistra sembra in bambola, incerto su tutto. Si dirà che i sondaggi ne preannunciano il trionfo, ma c'è il concreto rischio che si lasci sfuggire una vittoria data troppo presto per certa. Come un replay dei primi anni '90. Naturalmente, le ragioni di tanto disorientamento sono diverse. Una è indubbiamente la scarsa consistenza del progetto «democratico» prodian-veltroniano, l'incoerenza dell'unificazione coatta di forze eterogenee, non di rado contrapposte per radicamento sociale e ispirazione culturale. La storia recente delle lotte sindacali, col sistematico divergere della Cigl da Cisl e Uil, ne è eloquente testimonianza.
C'è anche una seconda ragione della grave difficoltà del centrosinistra, non meno influente, che chiama in causa tutte le forze che in ambito europeo fanno riferimento al campo socialista.
In gran parte dell'Europa - con la sola eccezione, sempre meno salda, della Germania - la condizione di lavoro e di vita delle classi subalterne è grave, per non dire disperata. Con la crisi dilaga la disoccupazione, i salari perdono potere d'acquisto, il welfare è ridotto ai minimi termini. Ci sarebbe materia per un conflitto sociale di proporzioni gigantesche, se vi fosse direzione politica e coscienza diffusa dei termini dello scontro. Se vi fosse, soprattutto, un'idea delle alternative possibili a questo stato di cose, a quest'ordine sociale, a questa gerarchia di poteri e interessi. Qui veniamo al punto.
La paralisi delle forze del lavoro discende anche da una chiusura dell'orizzonte nella ragione pubblica, che le scelte politiche di queste stesse forze negli ultimi vent'anni hanno, a loro volta, determinato. La crisi si dispiega dentro una spirale che è una prigione di per sé. Debito, deflazione, recessione, disoccupazione, povertà, altro debito. Ma da questa prigione non si pensa di potere evadere perché non si prende nemmeno più in considerazione l'ipotesi che i mali del capitalismo possano essere evitati superando il capitalismo.
La «fine» della storia
Uno dei risultati più devastanti della rivoluzione conservatrice neoliberale consiste nella diffamazione, interiorizzata nel senso comune, dell'idea che possa esserci una società diversa da quella in cui viviamo. Così, nonostante l'evidenza dell'insostenibile costo sociale e ambientale del capitalismo, si rimane imprigionati nell'esistente, come fosse per natura, privo di alternative praticabili. L'idea della fine della storia ha tracimato, ha lavorato con uno stillicidio quotidiano, sino a imporsi come il nuovo sfondo prerazionale di riferimento. Il secolo breve è finito. Questo è il mondo. Ma se uno scenario bloccato è di per sé una galera, uno scenario di miseria è un incubo.
Avere abbandonato l'orizzonte della trasformazione è stato uno dei molteplici suicidi della sinistra europea post-bipolare. Mentre cadeva il Muro di Berlino, congedarsi dall'idea dell'alternativa sembrava un sintomo di modernità, il riferimento alla transizione essendo uno dei temi classici del movimento operaio novecentesco. Si è trattato in realtà di un passo fatale sul terreno della subordinazione e della perdita di sé. Un passo che ha provocato la dissipazione di un inestimabile patrimonio materiale e immateriale di organizzazioni e culture, esperienze e volontà.
Abbiamo scritto più volte su questo: il dislocarsi delle forze critiche nell'area di un riformismo esangue è stato conseguenza e causa di una crescente subalternità non soltanto politica e sociale ma anche «intellettuale e morale», con grave pregiudizio dei settori subalterni, a cominciare dal lavoro dipendente. Quel che oggi preme osservare è che l'attacco ai settori sociali più deboli e la devastazione dei diritti del lavoro sono andati al di là di ogni limite e hanno innescato una dinamica regressiva che mette seriamente a repentaglio il precario compromesso tra capitalismo e democrazia.
La «fine» della democrazia
Anche qui hanno pesantemente influito fattori culturali. Una tale regressione non sarebbe stata possibile senza la normalizzazione ideologica dei corpi sociali, senza lo sradicamento del pensiero critico e la sua sostituzione con un «pensiero unico» che naturalizza l'esistente e lo concepisce come pura e semplice necessità. Ma ciò che raramente si coglie è la logica paradossale di questo processo, che fragilizza la coesione sociale, mina le fondamenta strutturali della «governabilità» e minaccia la tenuta di questa stessa forma sociale, rischiando di rovesciare il trionfo del capitalismo in una sua tragica sconfitta. Stravincere non è vincere. Non è detto che avere soppresso l'immagine dell'alternativa sia stato un buon affare. È servito a delegittimare le lotte, ma ha anche depotenziato la creatività e seminato depressione. Non è escluso che, nel radicalizzarsi della crisi, la chiusura dell'orizzonte possa uccidere la speranza stessa di rivitalizzare un sistema malato. Né che la rinuncia a immaginare un ordine diverso induca alla rassegnazione e ad assecondare la corsa nichilistica del capitale, che trionfa divorando se stesso. Che si autodivora perché trionfa.
Ma stravincere non è vincere
Quando Keynes scrisse la Teoria generale e combatté a Bretton Woods, non lo fece certo per sotterrare il capitalismo, ma per salvarlo da se stesso, dal pericolo mortale che discende dalla vocazione del capitale a cannibalizzare i corpi sociali. Quando Polanyi scrisse La grande trasformazione non si era convertito al marxismo. Focalizzò il nesso tra liberismo e regressione autoritaria per mettere in guardia la borghesia europea da quella coazione a ripetere per cui ciclicamente lo scatenamento degli spiriti animali devasta le società e l'anarchia del capitale riattiva pulsioni neofeudali.
Ma Polanyi e Keynes come riuscirono nelle loro imprese? Fu decisivo lo sguardo dal di fuori, proprio quell'orizzonte di alternativa che oggi è disperso, offuscato, precluso. Vi riuscirono perché immaginarono un'altra società, sia pure differente da quella per la quale il movimento operaio combatteva. E vi riuscirono perché presero sul serio, senza assumerlo ma senza demonizzarlo, l'esperimento sovietico. È un po' quello che Lévi-Strauss scrisse di Rousseau, nominandolo padre dell'antropologia, che Rousseau avrebbe inventato riuscendo a guadagnare distanza da se stesso.
L'uomo, come la società, si comprende - e se ne colgono limiti, bisogni, patologie e potenzialità - soltanto nel guardarlo dall'esterno e immaginandone una diversa configurazione. Chiudere l'orizzonte impedisce la comprensione, mortifica l'intelletto. Non estingue soltanto la volontà: ottunde e indementisce.
Oggi la distanza dall'esistente si è perduta. L'immaginazione, che avrebbe dovuto conquistare il potere, è bandita. La si è con cura neutralizzata, in quanto premessa di estraneità e di critica. Di potenziale pratica sovversiva. Ma in questo modo non si è soltanto soppressa la capacità di orientamento nella lotta degli avversari del capitalismo, si è irretita anche l'intelligenza creativa di chi vorrebbe civilizzarlo per salvarlo. Purtroppo questo non è il tempo dei sovversivi né dei critici. È l'ora dei tecnici, degli «addetti ai lavori», degli esecutori di programmi codificati. E poco importa se di questo passo sprofonderemo presto tutti quanti all'inferno.

Il Manifesto - 04.10.12

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