bersanipierluigidi Roberto Musacchio
Pierluigi Bersani ha dimostrato di avere una idea chiara e di avere altrettanto chiaro il come metterla in pratica. Non solo ha vinto le primarie ma sta andando assai vicino a due imprese storiche. Andare al governo con una coalizione, quale che sarà alla fine, imperniata sul suo partito e guidata direttamente da lui. E rendere il PD il grande contenitore che molti hanno ambito a realizzare prima di lui, senza averne la capacità. Onore dunque all’uomo che sta riuscendo in ciò che altri, che apparivano più titolati, non hanno saputo concretizzare.
Naturalmente ciò è anche frutto dei tempi che sono cambiati. Cambiati, per le aspettative di leadership che sono maturate nel corpo sociale e che sono più inclini alla “normalità bersaniana“.

Cambiati per la grande crisi delle destre. Cambiati per il venir meno di una sinistra autonoma capace di costituire una contraddizione attiva nella realizzazione della egemonia piddina.
Ma è indubbio che Bersani ha saputo però svolgere bene la sua parte, occupando in modo intelligente lo spazio che gli si apriva. Prendiamo proprio lo svolgimento delle primarie. Il segretario ha saputo governarle strategicamente, occupandone l’intero campo e, contemporaneamente, riuscendo a giocare anche in contropiede. Le ha assunte lui direttamente, rispetto allo stesso Vendola che ne aveva fatta la ragione di esistenza del suo progetto politico. Le ha aperte lui a Renzi che, anche lui, le aveva concepite come terreno della rottamazione. Ha saputo valersi della spinta di Renzi per fare contestualmente due operazioni. La prima, avvalersene per portare avanti un progetto di autoriforma indispensabile sia alla crescita dell’idea del grande PD, sia alla sua stessa leadership personale. Contemporaneamente ha collocato Renzi nel ruolo di colui che voleva snaturare il carattere “ progressista “ del PD stesso e della coalizione, colui che guardava a destra e da destra, rendendolo dunque una sorta di “ minaccia “ contro cui combattere.
E contro cui far combattere gli altri. Non c’è dubbio infatti che Vendola abbia finito per fare una campagna assai più contro Renzi che per la sua propria vittoria. Non so quanto ciò sia stato consapevole nelle scelte del leader di SEL e cioè se avesse dismesso ormai l’idea che potesse essere lui a vincere il confronto. Certo quella era l’ambizione originaria in nome della quale era stata motivata la scelta di aderire sempre più strettamente al campo delineato dal PD. Sicuramente gli altri elementi messi via via in essere dal Presidente pugliese, e cioè la assoluta centralità del governo e l’inesistenza di alcun terreno agibile fuori da quello del centrosinistra, hanno ancor più ridotto i suoi margini di manovra rispetto appunto alla copertura di quello spazio da parte di Bersani. Forse nei calcoli tattici c’era l’idea di potersi giocare le carte al secondo turno una volta sconfitto il “ comune nemico “, Renzi. Ma questo non lo sapremo mai perché i materiali immessi da Vendola nel cimento delle primarie sono stati inadeguati a portarcelo.
Il tema però del se a quella vittoria Vendola credesse e se essa fosse ad un certo punto della sua parabola politica, cioè qualche tempo fa, possibile è però comunque un tema politico. Perché ci fa ragionare, attraverso queste domande, sull’oggi e cioè sul dopo primarie. Visto dal punto di collocazione di Bersani il suo successo è il più classico dei collocarsi al centro, evocando due ali a sinistra e a destra, Renzi e Vendola. Siamo nei manuali di scuola del vecchio Pci. E altrettanto classico è il fatto che quel collocarsi al centro preveda una evoluzione del proprio posizionamento sussumendo, e non assumendo, quello delle ali equilibratrici che, proprio in quanto tali devono restare allineate. Se vediamo alla direzione di volo che Bersani sta prendendo viene in mente un altro classico e cioè quello del rinnovamento nella continuità.
Ma cosa sono questi elementi classici propri di un’altra storia, quella del PCI, riferiti invece all’oggi e cioè al PD e a questo periodo storico incarnato dalla crisi democratica e dell’edificazione dell’Europa post compromesso sociale? Questa è la domanda chiave che bisogna porsi perché guarda a come un’antica cassetta degli attrezzi viene agita in un contesto del tutto modificato e da un soggetto altrettanto modificato, e cioè il PD che non è e non sarà mai un nuovo PCI.
Per questo guardo ai punti di vista di Vendola e di Renzi ancora una volta dal punto di vista di Bersani, il vincitore. Quei punti di vista non potevano vincere perché avrebbero deprivato il PD di ciò che il PD ha voluto essere e cioè un corpo che trasformava la sua vecchia natura concepita per il cambio di società in un altro che ne manteneva alcuni connotati, a partire dalla capacità di selezionare le proprie scelte seconde gerarchie segnate dal “ primato della politica “, ma vocandoli al governo. Il governo per quello che oggi è rispetto ad un quadro che non è più modificabile nelle linee di fondo.
Per questo Vendola e Renzi sono sussunti assai più che assunti. Per questo l’assetto di volo di Bersani è il suo e non è piegato né verso la rottamazione né verso una svolta a sinistra. Basta vedere subito l’atteggiamento sulla questione TAV per capire che questa è la realtà. Realtà dura perché riguarda le ragioni stesse del successo del PD. Queste primarie hanno goduto di una campagna dei mass media senza precedenti. Al punto da non far riflettere sul fatto che pure in presenza di un grande successo di partecipazione questa sia stata abbastanza inferiore a quella di altre primarie della vecchia Unione. E anche sulla perdita di 300 mila votanti tra il primo e il secondo turno che pure dovrebbe far riflettere anche chi rivendica il contributo dei “ suoi “ al ballottaggio vincente di Bersani. Questa straordinaria copertura è certamente dovuta alla caratteristica democratica dell’evento ma non può sfuggire che con essa c’entra sicuramente anche con ciò che da quel corpo lì ci si attende da parte di molti e cioè che sappia governare per quello che l’Europa vuole e prevede. Cosa che del resto i socialisti europei fanno arrivando a votare a favore del Fiscal Compact anche dall’opposizione, come la SPD.
Non è dunque un caso che proprio il rispetto dei Trattati e delle scelte europee sia stato il cardine della carta d’intenti e che questo abbia delimitato il campo e la natura della alleanza al punto da rendere non credibili vittorie altre da quella di chi quel campo lo incarna e cioè il PD con il suo segretario. Che per altro giustamente ricorda che l’altra regola che rende diversa questa coalizione è che si voterà a maggioranza.
Mi restano poche righe che dedico a un breve pensiero di chi, come me, di quel campo non si sente parte e pensa che possa rappresentare più che la soluzione, il permanere del problema. Sono ancor più convinto oggi che una nuova sinistra in Italia possa nascere solo da un processo profondo di rimessa in discussione delle vecchie categorie a partire da quelle del “primato della politica “ che se hanno aiutato una storia antica oggi impediscono una storia nuova. Una nuova sinistra rinasce se saprà da un lato opporsi all’imposizione dell’ordine esistente e alla richiesta di esserne parte nella sua gestione, se saprà far centro sulla dimensione europea e se saprà ricostruire nel cambiamento sociale e democratico posto dai movimenti la sua ragion d’essere. Allora si che si potrà dire che cambiare si può.

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