di Stefano Cristiano
Il dibattito che si è sviluppato all’interno del PRC sulla candidatura di Ingroia e la lista unitaria, con relativo simbolo, è a mio parere molto significativo. Intorno a questo importante passaggio tattico, efficacemente tratteggiato da Mauro Lenzi nel suo articolo (leggi qui) che condivido pressoché integralmente, si è innescata una discussione all’interno del partito dalla quale affiorano, in diverse realtà, due sentimenti.
Il primo è quello che definirei sindrome del tradimento: i gruppi dirigenti del partito ci hanno già tradito in passato e anche stavolta il loro unico obiettivo è tornare in Parlamento. Il secondo invece è quello identitario che porta a preferire la “bella morte” abbracciati ai nostri vessilli (perché tanto io sono e resterò sempre “comunista dentro”), alla possibilità di arrestare l’inerzia e risalire la china quanto meno sul versante della sopravvivenza. Entrambi i sentimenti tratteggiano una tendenza, segnalano un problema, impongono una risposta.
La tendenza che affiora è quella auto assolutoria da un lato e individualistica dall’altro. L’impressione è che il senso comune veicolato in questi anni dalla cultura egemone nel nostro paese, sia penetrato anche all’interno del partito. L’idea cioè che esista una base fatta di puri che si sacrificano e di un vertice che li tradisce, è assimilabile a quella che indica i cittadini come gigli illibati e chi li governa come degli oscuri opportunisti. La verità, scomoda ma innegabile, è che sia i dirigenti di partito “traditori”, sia i “governanti infedeli” sono stati acclamati e sostenuti da maggioranze che, ripetutamente, li hanno votati.
Questa dinamica auto assolutoria, per altro, rischia di metterci fuori strada nel momento in cui dovremmo invece affrontare un’analisi seria e strutturale delle ragioni per le quali il PRC, dalla sua nascita, ha subito 8 scissioni perdendo decine di migliaia di iscritti e militanti. Il problema che segnalano è, come accennavo, quello del profilo identitario del PRC. Anche qui si potrebbero indicare due comportamenti: il primo è quello di chi affida all’elemento simbolico-elettorale, l’alfa e l’omega della natura del nostro soggetto, mettendo in secondo piano i contenuti politici e programmatici dell’operazione che è in campo, e considerando come strumentali perfino le esigenze imposte dalla tattica elettorale. Il secondo è quello di chi sembra passare dal “socialismo in un paese solo”, al “socialismo in una persona sola” ovvero io i miei simboli ce li ho nel cuore o attaccati alle pareti di casa, e ciò mi è sufficiente, tendenza questa che finisce col trasformare il comunismo, prospettiva storica fatta di analisi, strategia e conflitto politico e sociale, nel suo contrario ovvero una sorta di sentimento pseudo-religioso, ed il partito nella sua chiesa.
L’errore più grande che potremmo fare è sottovalutare, o peggio, assecondare queste dinamiche. Esse infatti mostrano quanto sia importante, oggi più che mai, riprendere quel percorso di “rifondazione” di una teoria e di una strategia per il superamento del capitalismo, che questo partito non ha mai affrontato in termini consapevoli e sistematici. Guardandoci indietro infatti ci accorgeremo che gran parte delle cosiddette “innovazioni” (penso al rapporto con i movimenti), o della ridefinizione del proprio profilo strategico (penso a temi importanti quali quello dell’imperialismo, del rapporto con il potere e della sua natura, la non violenza ecc.) sono stati utilizzati più per giustificare piccole operazioni di riarticolazione dei rapporti di forza interni al PRC, o per teorizzarne lo scioglimento, che per approfondirne il potenziale, con coraggio e curiosità politica ed intellettuale, in modo da offrire al partito, ai suoi militanti ed al paese, un vero percorso di rifondazione di una teoria e di una prassi comuniste.
Da Chianciano, e dopo la scissione, la nostra priorità è stata la lotta per la sopravvivenza. Tutte le componenti interne al PRC hanno contribuito a tenere insieme il partito su una prospettiva politica difficilissima, centrata sull’obiettivo della costruzione di una sinistra di alternativa autonoma dalla deriva liberale del PD. Se dovessimo rientrare in Parlamento avremo vinto un’importante battaglia, forse decisiva, per la sopravvivenza del nostro partito. Ma la scommessa vera, a mio parere, sarà capire se davvero il nostro partito, a partire dal proprio gruppo dirigente, saprà affrontare il tema dell’identità politica, sociale ed ideologica di un Partito Comunista nell’Europa del XXI secolo, o se autisticamente refluirà in comportamenti e dinamiche più rivolte alla necessità di garantire la sopravvivenza ad un po’ di ceto politico (per altro molto più rispettabile e dignitoso di quanto offra mediamente il panorama della politica italiana), ovvero se, come io auspico, saprà riaprire, senza privilegiare rendite di posizione o strumentali “sensibilità” politiche, il tema strategico della “Rifondazione Comunista”.