di Alberto Burgio
Silvio Berlusconi può dire qualsiasi cosa: il fatto stesso che sia lui ad averla detta basta a screditarla. È un marchio d'origine più che sufficiente. Ma può capitare così che si perda anche qualche verità, inconsapevolmente confessata o «dal sen fuggita». Qualche giorno fa, in margine al congresso del Partito popolare europeo di Marsiglia, Berlusconi si è esibito nella consueta manifestazione di impenitente ottimismo: non c'è ragione di essere preoccupati per la crisi economica, ha detto, perché l'economia italiana è solida, seconda solo a quella tedesca e meglio messa di quelle di Svezia, Francia e Gran Bretagna.
Tutti gli hanno subito dato addosso (anche molti tra quanti gli hanno retto la coda fino a ieri), ricordando analoghe affermazioni di qualche mese fa (i ristoranti pieni, i telefonini, le automobili, gli yacht, le case...). Il fatto è che una cosa vera Berlusconi l'ha pur detta col suo sorriso di ceramica a 64 denti. Vera, significativa e molto imbarazzante. «L'Italia - questo era il cuore del ragionamento - è indebitata, ma ha cittadini benestanti». Ora, si può anche reagire con fastidio ogni qual volta costui dà fiato alle trombe, ma non si può negare che l'affermazione contenga una verità. Enunciata col candore tipico di chi è talmente assuefatto alle proprie vedute (e alle proprie fortune) da non sospettare il significato riposto in quanto va dicendo. Berlusconi intendeva denunciare (a ragione) la strumentalità degli attacchi mossi contro il nostro Paese da Francia e Germania e dalle agenzie di rating, e rivendicare (a torto) i pretesi meriti del proprio governo, che ha solo aggravato il disastro con i ripetuti condoni tombali (tre in nove anni), i reiterati scudi fiscali (altri tre dal 2001 al 2009), l'aumento della spesa pubblica improduttiva, le regalie alle imprese, gli attacchi ai salari, ai contratti e ai diritti dei lavoratori, i favori all'elusione e all'evasione fiscale (oltre 250 miliardi di euro annui secondo l'Istat), da lui stesso definita un «diritto naturale che è nel cuore degli uomini». Ma quello che non si è accorto di dire è che se un Paese è conciato in questo modo, se ha uno Stato in dissesto e un debito privato relativamente contenuto, tale stato di cose può spiegarsi in un solo modo: col fatto che in Italia da decenni i soldi girano a senso unico. Nascono dal lavoro dipendente e passano ai profitti e alle rendite, grazie alla politica economica praticata da tutti i governi (tutti, senza esclusione alcuna) e grazie a un sistema fiscale (fondato sul prelievo alla fonte sul lavoro dipendente e sul continuo aumento delle imposte indirette) che già nel lontano 1983 (quando il totale evaso era circa un quarto dell'attuale) un autorevole ministro delle Finanze (Bruno Visentini) definì graziosamente «uno schifo». Mentre molti italiani fanno i soldi (e li portano in Svizzera: si parla di qualcosa come 300 miliardi di euro), mentre il dieci per cento dei nostri concittadini si gode la metà della ricchezza nazionale, lo Stato italiano è sommerso dai debiti semplicemente perché la fiscalità generale pesca in massima parte dal lavoro dipendente. Per questa ragione il gettito è strutturalmente insufficiente (nonostante la pressione fiscale sia ormai prossima al 45%). E questa situazione porta con sé una catena di conseguenze. La prima: aumentano il debito e l'esposizione verso i creditori (che sono in parte proprio quanti evadono il fisco). La seconda: cambia la composizione della spesa pubblica, a detrimento delle voci ritenute inessenziali: non si toccano i cacciabombardieri né le grandi opere a grande impatto clientelare e camorristico, ma si riducono sistematicamente i servizi (sanità, scuola, università, assistenza), la spesa previdenziale, i trasferimenti ai Comuni, gli organici pubblici, la manutenzione del territorio, dell'ambiente, dei beni culturali. Infine, terza conseguenza: il lavoro, colpito nel reddito (diretto e indiretto) e tartassato dal fisco, è sempre più povero. Il che contribuisce ad aggravare la crisi, ormai avvitata in una drammatica spirale recessiva. È un moto perpetuo, che non si vuole in alcun modo arrestare (basterebbe una seria patrimoniale strutturale e una riforma fiscale basata sul conflitto d'interessi tra i contribuenti). È una dinamica - peraltro arcinota - che costituisce il più preciso criterio di giudizio sul conto della nostra «classe dirigente». Al di là delle retoriche sull'interesse generale e l'amor patrio tanto care al presidente della Repubblica, l'Italia a cavallo tra la Seconda e la Terza Repubblica è una democrazia (?) fondata sull'evasione e l'elusione fiscale. È questa l'anima inconfessabile della politica economica italiana, la cui radicale iniquità il nuovo governo dei «tecnici» intende evidentemente tutelare. Alla vigilia dell'incontro con i sindacati il presidente Monti ha dichiarato che la manovra non sarebbe cambiata, non solo nei saldi e nel carattere strutturale delle «riforme» (l'ennesima rapina a danno di chi va o è in pensione), ma anche nella ripartizione dei sacrifici. Ha parlato, con il compassato eloquio che gli conosciamo, della propria «visione della distribuzione dei carichi», e certo pensava anche alla tenerezza verso gli esportatori di capitali e all'indulgenza nei riguardi di Santa Madre Chiesa. Sta di fatto che la musica non cambia. È un grosso guaio, in questo Paese, dover campare di salario o di stipendio: vuol dire che si è figli di un dio minore. Tecnici o non tecnici, onesti o mariuoli, la politica è sempre la stessa. Qualcuno direbbe: business, as usual.
Liberazione 14/12/2011