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La riforma del mercato del lavoro, da sola, non crea occupazione. E ancora, non è la crescita a generare occupazione, ma esattamente il contrario: è la creazione di posti di lavoro a produrre crescita. Quello di Luciano Gallino, sociologo e intellettuale a tutto campo tra i più lucidi di questi anni, è un approccio spiazzante in un’epoca di grandi semplificazioni ideologiche.
Perché è singolare come in uno dei momenti più difficili della storia dell’ultimo secolo – in cui la finanza si avvita sull’economia rischiando di bruciare in pochi mesi diritti, lavoro e progresso pazientemente costruiti in tanti anni –, mentre servirebbero analisi e interventi sempre più complessi e sofisticati, il dibattito proceda invece con i tempi e la superficialità degli spot pubblicitari.E allora sfilano uno dopo l’altro slogan scoppiettanti e accattivanti nella loro semplicità. E così basterà eliminare l’articolo 18, lanciare finalmente in Italia la flexicurity e liberalizzare il mercato del lavoro perché il paese si tiri fuori dalle secche in cui è finito tornando a creare sviluppo e lavoro. Ma stanno davvero così le cose? “Quello a cui assistiamo oggi è un approccio ideologico alle grandi questioni in gioco – dice Gallino a Rassegna –. Già trent’anni fa cominciarono gli attacchi alla presunta rigidità del mercato del lavoro e in particolare all’articolo 18. Ma personalmente non ho mai letto uno studio, una ricerca che provasse una relazione verificabile tra questa presunta rigidità e la crescita dell’occupazione”.Rassegna: Cosa ci dicono i dati disponibili in proposito?Gallino: Le tabelle stilate dall’Ocse mostrano molto chiaramente che a partire dal 1996 e fino al 2008 (ultimi dati disponibili, ndr) il rigore della protezione del lavoro è fortemente diminuito in Italia. Si è passati dall’indice molto alto del 1996, 3,57, all’1,89 del 2008, un dato molto più basso di Germania, Spagna e Francia. Riassumendo: non c’è nessuna “prova” del rapporto tra facilità di licenziare e crescita dell’occupazione e, in ogni caso, questa flessibilità in uscita è molto aumentata negli anni. Cosasi vuole, dunque, di più?Rassegna: A cosa va imputato questo forte abbassamento di protezione negli anni?Gallino: Si è iniziati ad andare in questa direzione con il Pacchetto Treu, ma poi, soprattutto, c’è stata la legge 30, con la quale i contratti precari si sono moltiplicati in maniera esponenziale, compromettendo così un’intera generazione di lavoratori. Gli occupati supeflessibili, infatti, non sono
più giovani con la speranza di avere un lavoro stabile entro pochi anni, ma hanno ormai 40 anni e più.Rassegna: Questa situazione, potrebbe cambiare con il contratto unico…Gallino: Guardi, io questi tre anni di prova durante i quali il lavoratore può essere licenziato li trovo davvero singolari, direi fuori dal mondo. Nessuna impresa ha bisogno di tanto tempo per capire se una persona è adatta al lavoro che deve svolgere. Il periodo di prova può e deve essere molto breve: un operaio che costruisce macchine o un addetto alla ristorazione, tanto per fare qualche esempio, hanno bisogno di pochi giorni per imparare le mansioni che devono svolgere.Rassegna: Ma una riforma del mercato del lavoro senza ideologie come andrebbe
fatta, secondo lei?Gallino: Non amo citarmi, ma per me restano valide le proposte lanciate in Il lavoro non è una merce. Occorre tornare a un solo tipo di contratto di lavoro a tempo indeterminato e orario pieno; rispetto a questa tipologia generale di riferimento si possono ipotizzare alcune deroghe: il contratto a tempo parziale, a tempo determinato e, quando sono davvero reali e non trucchi, le collaborazioni e le partite Iva. Questa riforma si può fare in due modi: la prima, ma mi pare molto difficile, abolendo la legge 30 e un pezzo del Pacchetto Treu (quello che si riferisce al lavoro in affitto); l’altra, che mi sembra più facilmente perseguibile, senza nessuna abolizione ma aggirando le disposizioni normative.Rassegna: Una semplificazione che sembra abbastanza discutibile è quella che affida al mercato del lavoro il “compito” di creare lavoro. Cosa ne pensa?Gallino: Sono d’accordo. Il mercato del lavoro serve casomai a far incontrare domanda e offerta. Più in profondità, credo che la sua funzione sia quella di porsi come principio guida importante per rendere “decenti” le condizioni di lavoro. Mi riferisco a quel decent work che non è concetto astratto o pittoresco, ma basato su standard misurabili e verificabili elaborati dall’Ilo e che riguardano: salario, sicurezza, ambiente, organizzazione del lavoro e così via. E certamente un universo occupazionale come il nostro, con 4 milioni di precari, non rientra in questi parametri. In estrema sintesi, un mercato del lavoro che funzioni deve ridurre i lavori “indecenti” e moltiplicare quelli “decenti”.Rassegna: E per creare lavoro?Gallino: Va totalmente ribaltato un concetto che oggi va per la maggiore: non è la crescita a produrre occupazione, ma il contrario. Solo una diffusa occupazione genera crescita. Occorre dunque lavorare, con serie politiche industriali – magari di stampo keynesiano –, per la creazione diretta di posti di lavoro. Ma di queste politiche non mi pare oggi di scorgere alcuna traccia o presagio, neanche all’orizzonte.Rassegna: Cosa ci insegna l’Europa su come coniugare crescita e lavoro?Gallino: Il paese più virtuoso, da questo punto di vista, è sicuramente la Germania. E uno dei motivi, secondo me, sta nel fatto che i sindacati sono molto forti, soprattutto nelle grandi aziende dove hanno il 50 per cento dei rappresentanti nei Consigli di sorveglianza. Non è un caso che in questo paese negli ultimi anni non si sia praticamente più licenziato. Basti ricordare gli accordi che flessibilizzano, in momenti di crisi, gli orari di lavoro, con la riduzione da 39 a 27 ore settimanali e con una perdita di
salario di appena il 4 per cento grazie agli interventi dell’azienda e dello Stato. L’accordo alla Siemens del 2010, per esempio, che blocca i licenziamenti in tutto il mondo (210.000 addetti) fino al 2013. Ecco, cose di questo genere vorrei vederle anche in Italia.Rassegna: Ma è esportabile un modello di questo tipo in un paese, come il nostro, il cui tessuto produttivo è fatto essenzialmente di piccole e medie aziende? E poi anche la codeterminazione alla renana ha qualche zona d’ombra…Gallino: Certo il modello ha i suoi limiti, qualche compromesso di troppo, però nel complesso funziona. Quanto alla dimensione delle imprese, quello che dice lei è vero. Ma le potrei rispondere che accordi di questo tipo in grandi aziende come Fiat e Finmeccanica avrebbero una ricaduta importante in
tutta la catena dell’indotto legata ad appalti e subappalti. Detto questo, anche in Germania non tutto va per il meglio. Ci sono milioni di occupati poveri nei cosiddetti minijobs – i lavori da non più di 15 ore a settimana e non più di 500 euro al mese – e ancora grandi divari retributivi (anche 30-40 per cento) tra est e ovest persino per le mansioni più elevate. Però nelle grande e medie aziende va abbastanza bene. E poi, rispetto al nostro paese, c’è la grande differenza degli investimenti in ricerca e sviluppo. Le
do un solo dato: nel 2011 la Volkswagen ha speso 20 miliardi di euro, la Fiat 1,9.Rassegna: Oggetto di grandi peana è da noi anche la flexicurity alla danese. Cosa ne pensa?Gallino: Guardi, sulla flexicurity ci sono grandi equivoci. Le statistiche danesi sono congegnate in modo tale da nascondere la disoccupazione reale. Non rientra tra i disoccupati chi, avendo perso un lavoro, viene inserito in corsi di formazione professionale o si trova a svolgere apprendistato in
qualche centro per l’impiego: ma non è affatto detto che costui, successivamente, venga effettivamente reinserito nel mercato del lavoro e, quindi, di fatto, al momento è disoccupato. Anche i prepensionati “a forza” non rientrano in questo contingente. In tal modo la Danimarca ha dichiarato
per il 2011 un tasso di disoccupazione del 5 per cento, ma stime attendibili ci dicono che il reale indice di disoccupazione sia addirittura del 15 per cento. E poi c’è un altro aspetto da tenere presente. L’estrema flessibilità del mercato del lavoro danese porta ogni anno il 30 per cento degli occupati
a cambiare lavoro, anche spostandosi. Ma la Danimarca è piccola: pensi all’impatto che potrebbe avere in Italia se il 30 per cento degli occupati (cioè 6 milioni di persone) dovessero ogni anno spostarsi per una penisola lunga duemila chilometri. Sono tutti aspetti che, nel nostro dibattito fortemente orientato in senso ideologico, vengono completamente ignorati.