Nicola Cacace

120210tagli«In Italia i figli degli operai hanno sempre minori opportunità». Ma continuano a colpire il lavoro. L’Unità, 10 febbraio 2012
L’Italia è tra i Paesi industriali dove la concentrazione della ricchezza, le diseguaglianze sociali, la mobilità geografica e l’immobilità sociale sono ai livelli massimi. Milioni vivono questa realtà sulla loro pelle, molti la conoscono, tranne, sembra, alcuni professori molto bravi nei rispettivi campi. Solo in Italia, il 45% della ricchezza privata è posseduta dal 10% delle famiglie mentre il 50% possiede meno del 10%, un amministratore delegato come Marchionne può arrivare a guadagnare 500 volte il suo operaio (il prof. Valletta, capo della Fiat negli anni Sessanta guadagnava 50 volte il suo operaio), il legame tra i redditi di papà e quelli del figlio è così stretto che quasi metà dei figli dei professionisti, avvocati, architetti, medici, hanno successo nella stessa professione del padre mentre meno del 10% dei figli di operai ha speranza di fare un salto di classe (dati Censis), dal 1990 al 2005 il passaggio dal Sud al Nord ha coinvolto 2 milioni di persone, di cui la metà diplomati e laureati, mobilità record nell’eurozona.

Luigi Einaudi ricordava che «per governare occorre anzitutto conoscere». A sentire le uscite di alcuni nostri ministri sui giovani descritti come bamboccioni, mammoni o sfigati, c’è da dubitare sulle loro conoscenze. Proprio ieri il Censis ha illustrato i risultati di una ricerca sulla «mobilità sociale», partendo dai dati Istat sull’istruzione e le professioni: «Rispetto alle generazioni precedenti oggi c’è un blocco nel passaggio da un livello sociale ad un altro». A distanza di anni sembra di sentire le parole di un altro grande, Achille Campanile, secondo cui «nascere povero in Italia equivale ad una condanna ai lavori forzati a vita».

Purtroppo la situazione sembra peggiorata negli anni. Perché le diseguaglianze sociali sono aumentate dai tempi di Campanile, come testimoniano tutti i dati, da Eurostat ad Ocse, che mostrano l’Italia seconda per diseguaglianza in Europa solo alla Grecia patria di evasori fiscali e alla Gran Bretagna impoverita dalle politiche liberiste e classiste della Thatcher. L’indice di Gini misura le diseguaglianze di reddito tra ricchi e poveri, con valori che vanno da zero, perfetta eguaglianza di redditi tra le persone, ed uno, massima diseguaglianza di reddito. Tutti i Paesi con indice di Gini inferiore a 0,3 sono a minor diseguaglianza sociale e si dà il caso che questi siano anche i Paesi che meglio di altri stanno superando la crisi occidentale.

I principali Paesi europei ad alta eguaglianza sociale, con indice di Gini inferiore a 0,3 sono Germania, Francia, Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia e questi Paesi sono anche quelli che hanno salari più alti, sindacati forti, lavoro tutelato, sono attrattivi di investimenti esteri e sono diventati anche tra i più ricchi per reddito procapite. Oggi che si comincia a parlare anche di crescita, spero che i nostri professoriministri, oltre a fare bene i loro compiti settoriali, sappiano essere più attenti ai dati generali, su mobilità geografica e sociale, diseguaglianze, etc., tutti dati che in Italia confliggono con le caratteristiche della società della conoscenza centrata sulla risorsa umana, la sua formazione continua e i suoi diritti. Altro che andare lancia in resta contro l’art. 18, «che impedirebbe gli investimenti esteri». Il Paese europeo con i salari più alti e i diritti sindacali più rigorosi, la Svezia, ha il record europeo ed occidentale degli investimenti diretti esteri in entrata, sino al 30% degli investimenti fissi contro il nostro 2%. L’augurio che facciamo ai professori che ci governano è che ricordino sempre le parole di Luigi Einaudi sull’importanza di «conoscere per governare», risparmiandoci uscite politicamente improvvide e tecnicamente sbagliate.

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