Dopo il veto russo-cinese all'ultima risoluzione ONU appoggiata dalla Lega Araba e dall'Occidente, con tutta probabilità la crisi siriana andrà verso un'ulteriore escalation, e quella che era candidata a diventare una sanguinosa guerra civile potrebbe trasformarsi in qualcosa di ancora peggiore: una guerra "per procura" nella quale interverranno...
diversi attori internazionali appoggiando rispettivamente il regime o i ribelli, e che potrebbe avere serie ricadute regionali, destabilizzando i paesi vicini – in primo luogo Libano e Iraq.
Sebbene il veto di Mosca e Pechino abbia "fatto scandalo", suscitando le ire e l'indignazione degli Stati Uniti, dell'Unione Europea e dei paesi arabi del Golfo, il destino della risoluzione ONU era segnato fin dal principio.
Per quanto il testo della risoluzione fosse stato "annacquato" rispetto alla bozza iniziale proprio per evitare il 'no' di russi e cinesi, sono gli stessi presupposti alla base dell'iniziativa al Consiglio di Sicurezza ad averne determinato l'esito negativo.
I PRESUPPOSTI DEL FALLIMENTO ALL'ONU
La risoluzione appoggiava un piano della Lega Araba che prevede una transizione che di fatto porterebbe a un cambio di regime in Siria; chiedeva il ritiro dell'esercito siriano dalle strade senza esigere la stessa cosa dai gruppi armati ribelli; e, sebbene affermasse di non rifarsi all'articolo 42 del capitolo VII della Carta dell'ONU (quello che prevede il ricorso all'intervento armato), al penultimo paragrafo accennava all'adozione di "ulteriori misure" qualora il regime siriano non avesse implementato la risoluzione entro 21 giorni, di fatto reintroducendo la possibilità di un futuro intervento militare.
Al di là dei contenuti della risoluzione, poi, sono le posizioni di coloro che l'hanno promossa ad aver suscitato la sfiducia di Mosca e Pechino sulle reali intenzioni dell'iniziativa al Consiglio di Sicurezza.
La risoluzione è stata promossa da paesi occidentali come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia (ovvero dalla principale potenza egemone in Medio Oriente, e nemica giurata del regime di Damasco, dal suo primo alleato, e dall'ex potenza coloniale in Siria) e dai paesi del Golfo guidati dal Qatar e dall'Arabia Saudita (rispettivamente un ex alleato di Damasco ed un suo nemico, la cui rivalità con il regime siriano è stata alimentata negli ultimi anni dalle posizioni rispettivamente divergenti in merito alla questione palestinese e dall'appoggio siriano nei confronti di Hezbollah e dell'Iran, noti avversari di Riyadh).
A confermare le posizioni poco concilianti dei promotori della risoluzione vi è il fatto che, all'indomani del veto russo-cinese, numerosi responsabili occidentali hanno ribadito senza mezzi termini che Assad "deve andarsene", confermando il proprio appoggio incondizionato all'opposizione; e, pochi giorni fa, la Lega Araba capeggiata da Riyadh e Doha ha chiesto un intervento militare congiunto da parte araba e dell'ONU per condurre una "missione di pace" in Siria.
In altre parole, sebbene il presidente siriano Assad non abbia a sua volta mostrato alcuna disposizione al dialogo o al compromesso, le posizioni dei promotori dell'iniziativa "a sostegno del popolo siriano" all'ONU hanno complicato la situazione invece di favorire una già problematica soluzione.
Bisogna ricordare che la rivolta scoppiata a marzo dello scorso anno in Siria vide manifestanti pacifici – che chiedevano giustizia sociale, meno corruzione e una maggiore condivisione del potere – confrontarsi con la repressione violenta e spietata del regime.
E' quest'ultimo, con la sua intransigenza e la sua indisponibilità al dialogo, il primo e principale responsabile dell'inasprimento della protesta e della sua progressiva militarizzazione – una militarizzazione che forse il regime ha perseguito intenzionalmente, non solo con la sua brutalità securitaria, ma anche con la sua retorica e propaganda, proprio per poter meglio delegittimare la protesta e per poter agitare lo spauracchio della guerra civile a sfondo settario.
E' però altrettanto doveroso dire che, malgrado la legittimità delle rivendicazioni dei manifestanti, la protesta siriana non è mai arrivata a coinvolgere l'intera popolazione, ed attualmente si configura come una ribellione a maggioranza sunnita contro la minoranza alawita a cui appartiene il regime, mentre le altre minoranze come quella cristiana e quella curda rimangono pressoché silenziose temendo soprattutto le conseguenze del possibile dilagare di una sanguinosa guerra civile.
Detto questo, i "sostenitori stranieri del popolo siriano" – con francesi, inglesi, turchi e qatarioti in prima fila – hanno per molti versi preso in ostaggio la frammentata e divisa opposizione siriana, modellando all'estero un'organizzazione "ombrello", il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto rappresentare l'intera opposizione (in un certo qual modo ricalcando l'esperienza del Consiglio Nazionale Transitorio libico).
Dal canto suo, la Turchia ha anche dato asilo e sostegno ai vertici dell'Esercito Siriano Libero (Free Syrian Army – FSA), un'organizzazione armata composta in gran parte da disertori dell'esercito siriano la quale comanda alcune milizie ribelli in Siria (ma non ha assolutamente il controllo su tutte le formazioni armate che si oppongono al regime).
L'FSA ha compiuto un numero crescente di attacchi armati ed azioni dinamitarde contro il regime e le forze regolari siriane, contribuendo in maniera determinante a trasformare il confronto in un conflitto armato.
Ultimamente si sono moltiplicate le notizie secondo cui alcuni paesi del Golfo, con in testa ancora una volta Qatar ed Arabia Saudita, starebbero già fornendo sostegno finanziario e logistico ai ribelli in Siria, e probabilmente anche armi. A ciò si aggiungono le voci di una possibile presenza sul terreno di forze speciali occidentali (si parla in particolare di forze britanniche) che starebbero fornendo consulenza e supporto ai ribelli (secondo uno schema che, anche in questo caso, si è già verificato in Libia).
L'elemento più grave di tutti, e che scredita definitivamente la pretesa "imparzialità" dei promotori della risoluzione ONU contro il regime siriano, è che un numero crescente di think-tank americani(che tradizionalmente contribuiscono in maniera determinante a plasmare la politica estera USA), dianalisti filo-israliani e di "analisti di regime" nel Golfo sostengono in maniera più o meno smaccata la necessità di rovesciare il regime di Assad poiché ciò offrirebbe l'opportunità senza precedenti di allontanare la Siria dall' "asse della resistenza" guidato dall'Iran.
Ciò avrebbe l'effetto di isolare il regime di Teheran, e di indebolire drammaticamente Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano, i quali si vedrebbero privati delle proprie vitali retrovie e dei canali di approvvigionamento attraverso i quali giungono gli aiuti iraniani.
Tale "opportunità" acquista un significato ancor più centrale alla luce della sempre più aspra contrapposizione che vede schierati a diverso titolo Israele, gli Stati Uniti, i paesi arabi del Golfo e l'Europa – ovvero praticamente lo stesso schieramento (con l'ovvia eccezione di Israele) che ha promosso la risoluzione ONU sulla Siria – contro l'Iran nell'ormai annosa crisi legata al programma nucleare iraniano.
Com'è noto, tale contrapposizione – che ha visto recentemente una drammatica escalation di sanzioni che equivalgono ad altrettanti "atti di guerra" contro Teheran – rischia di sfociare in un conflitto militare aperto, dagli esiti imprevedibili.
Privare l'Iran dell'alleato siriano contribuirebbe perciò a completare l'accerchiamento del regime iraniano, indebolendolo politicamente oltre che economicamente, al punto da aprire lo scenario di un possibile cambio di regime anche a Teheran.
LE POSIZIONI DI MOSCA E PECHINO
Alla luce di questo contesto, il veto russo-cinese non appare più tanto "scandaloso", ma forse quasi scontato.
E non appare neanche come un evento così fuori dell'ordinario: sebbene il segretario di stato Hillary Clinton abbia definito il veto "una parodia", e l'ambasciatore americano all'ONU Susan Rice si sia detta "disgustata" di fronte alla scelta di Mosca e Pechino, non pochi osservatori nel mondo arabo (non necessariamente schierati con Assad) hanno prontamente ricordato che Washington ha fatto ricorso al veto per ben 42 volte a partire dal 1972 per bloccare risoluzioni di condanna nei confronti di Israele motivate dalle sue gravi violazioni del diritto internazionale (dall'espropriazione di terre all'espansione di insediamenti illegali, agli attacchi ai danni di civili in paesi confinanti, ecc.).
Se poi la decisione russa e cinese indubbiamente infligge un altro duro colpo alla credibilità dell'ONU ed alla sua capacità di intervento, è anche vero che a colpire a morte questa istituzione internazionale ci pensò già Bush nel 2003 con il suo intervento unilaterale in Iraq sulla base di asserzioni (la presunta presenza di armi di distruzione di massa, ed i pretesi legami di Saddam con al-Qaeda) rivelatesi poi tragicamente infondate.
Un episodio più recente ma ugualmente grave per i destini dell'ONU è rappresentato dall'intervento militare in Libia. In questo caso l'astensione di Russia e Cina permise l'approvazione di una risoluzione che autorizzava l'uso della forza per imporre una no-fly zone a difesa dei civili. Ma l'intervento militare NATO si trasformò in un aperto appoggio ai ribelli libici finalizzato ad imporre un cambio di regime, che fu suggellato dalle drammatiche immagini del linciaggio di Gheddafi.
A seguito di questo precedente, Mosca e Pechino – che sostengono il principio di non-ingerenza negli affari interni di paesi sovrani – sono determinati ad evitare il ripetersi dello "scenario libico".
Naturalmente, il veto russo-cinese è legato a ragioni interne e ad interessi specifici prima ancora che a questioni di principio. Entrambi questi paesi reprimono il dissenso interno e le minoranze in regioni come il Tibet, lo Xinjiang e il Caucaso.
Il veto di Pechino è poi considerato un gesto di solidarietà nei confronti di Mosca contro lo strapotere americano, più che un segno di aperto appoggio al regime di Damasco.
La posizione cinese è tradizionalmente più defilata rispetto a quella di Mosca, e difficilmente Pechino avrebbe posto il veto in assenza di un'analoga decisione da parte russa.
Del resto è il Cremlino ad avere i maggiori interessi in Siria. Damasco è l'ultimo alleato di Mosca nel mondo arabo, e un importante mercato per l'industria bellica russa. La Siria ospita inoltre l'unica base navale russa nel Mediterraneo.
Ma le ragioni della posizione russa all'ONU vanno ben al di là di questi interessi. In un momento in cui il governo russo si trova a dover fronteggiare una forte opposizione popolare, Vladimir Putin, determinato a tornare alla presidenza del paese vincendo le elezioni del mese prossimo, vede ogni rivolta nel vicinato russo come un elemento in grado di incoraggiare la propria opposizione interna (e di fatto accusa Washington di utilizzare le proteste popolari in altri paesi come altrettanti "cavalli di Troia" per ottenere dei cambi di regime).
Infine la Russia teme l'ascesa dei movimenti islamici nel mondo arabo, ed in particolare vede con timore la probabile affermazione di forze islamiche in Siria dopo l'eventuale caduta di Assad, soprattutto se ciò dovesse accompagnarsi ad un prolungato periodo di instabilità dopo il rovesciamento del regime. Mosca teme infatti che ciò potrebbe destabilizzare la già fragile situazione nel vicino Caucaso.
Ciò non vuol dire che i rapporti fra il Cremlino e Damasco siano idilliaci, o che Mosca non si renda conto del fatto che il regime siriano si è cacciato in un vicolo cieco dal quale difficilmente uscirà indenne. Ma quello che la Russia vuole evitare a tutti i costi è che l'ineludibile transizione in Siria sia ancora una volta guidata dall'Occidente e dai suoi alleati turchi ed arabi, che hanno "monopolizzato" l'opposizione al regime estromettendo di nuovo Mosca.
D'altra parte, la spaccatura consumatasi all'ONU pone la Russia in una situazione difficile. Sebbene il veto russo non significhi automaticamente un appoggio incondizionato al regime di Damasco, questo passo di certo non ha messo il Cremlino in buona luce agli occhi dell'opposizione siriana. Inoltre tale veto rischia di compromettere i rapporti russi con i paesi arabi, ed in particolare con i ricchi e influenti paesi del Golfo.
Soprattutto all'interno di questi ultimi, molti ritenevano che Mosca avrebbe garantito il proprio appoggio all'iniziativa araba ed alla risoluzione ONU se fosse stata adeguatamente "incentivata". Il 'no' russo ha perciò rappresentato una grossa delusione, che è stata apertamente manifestata dal re saudita Abdullah nei giorni scorsi.
LA SIRIA AL CENTRO DI UNA NUOVA GUERRA FREDDA?
L'ennesimo fallimento dell'ONU porta con sé alcune gravi conseguenze.
In primo luogo, esso rappresenta una nuova tappa nel progressivo processo di frammentazione della comunità internazionale e nel sempre più marcato scivolamento dell'ONU verso l'irrilevanza.
Secondariamente, esso determina un ulteriore irrigidimento delle posizioni delle parti in conflitto in Siria: se da una parte il regime potrebbe considerare il veto russo-cinese come una sorta di "via libera" all'inasprimento della propria repressione, dall'altra i ribelli vengono certamente incoraggiati a fronteggiare anche militarmente il regime dalle dichiarazioni di aperto sostegno ricevute da parte araba ed occidentale.
L'unica possibilità di pilotare la crisi siriana verso una soluzione di compromesso in grado di porre fine al bagno di sangue – ovvero che una comunità internazionale coesa esercitasse unanimemente pressioni tali da spingere tutte le parti coinvolte nel conflitto ad aprire un dialogo, ed allo stesso tempo si astenesse dall'avanzare posizioni di parte nella crisi, facendo gestire il difficile compito di mediazione a paesi non direttamente implicati nel complesso groviglio di interessi che ruotano attorno alla Siria – potrebbe ora essere tramontata definitivamente.
Mentre il segretario di stato USA Hillary Clinton ha affermato che Washington lavorerà con i propri alleati per esercitare "un'immensa pressione" sul presidente Assad, paesi come Francia e Turchia (la quale ha ormai bruciato i ponti con il regime di Damasco hanno proposto di creare un gruppo di "amici del popolo siriano" composto da paesi pronti a sostenere a livello finanziario ed umanitario l'opposizione siriana (sulla falsariga del "Gruppo di contatto" che appoggiò l'opposizione libica).
Ma comincia a farsi strada anche l'ipotesi di armare direttamente i ribelli. A favore di questa opzione si sono già espressi senatori americani come il repubblicano John McCain e l'indipendente Joe Lieberman, mentre i paesi del Golfo, che già forniscono sostegno logistico e forse militare ai ribelli, potrebbero essere favorevoli ad intensificare la propria campagna di sostegno.
Il Pentagono ha già messo a punto dei piani di emergenza che prevedono la possibilità di armare l'Esercito Siriano Libero (FSA) e di creare dei "corridoi umanitari" per fornire aiuti ai "civili". I leader dell'FSA chiaramente spingono fortemente per opzioni di questo tipo, ed anzi chiedono l'imposizione di una no-fly zone, o di "zone cuscinetto" che forniscano alle loro milizie dei rifugi da cui operare liberamente.
Washington e i paesi arabi del Golfo potrebbero essere spinti su questa strada anche dalla convinzione che il veto di Mosca e Pechino all'ONU non si tradurrà in un sostegno duraturo al regime di Assad. Come sostiene ad esempio Anthony Cordesman – noto analista del Center for Strategic and International Studies, e già consulente del governo americano – in Siria "sono in ballo interessi russi, ma non si tratta di interessi vitali".
Tuttavia già in sede ONU americani ed arabi hanno dimostrato di aver sottovalutato le suscettibilità russe riguardo alla questione siriana. Il delicato momento che la Russia sta attraversando è già stato sottolineato sopra. Inoltre, perfino se Mosca dovesse venire a patti con una militarizzazione della crisi siriana da parte americana ed araba, di certo Teheran non farà lo stesso.
Gli interessi iraniani in Siria sono senza dubbio vitali, soprattutto in un momento in cui il regime di Teheran si trova a dover combattere per la propria stessa sopravvivenza di fronte all'offensiva politica ed economica (e forse, in un futuro prossimo, anche militare) condotta nei suoi confronti da parte dell'Occidente, di Israele e dei paesi arabi del Golfo.
Si profila perciò il rischio che la crisi siriana, che già sta scivolando da tempo verso una guerra civile complicata dalla complessa struttura etnica e confessionale del paese, si trasformi in una "guerra per procura" terribilmente pericolosa per l'intera regione, che potrebbe vedere da un lato Washington, l'Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia pronti a sostenere e ad armare i ribelli, e dall'altro l'Iran (con l'eventuale collaborazione di Hezbollah e dell'Iraq del primo ministro Maliki), e in seconda fila la Russia (e forse la Cina), impegnati a inviare aiuti ed armi al regime di Damasco. Uno scenario da "Guerra Fredda", che per certi versi potrebbe ricordare il Libano o l'Afghanistan degli anni '80 del secolo scorso.
Ovviamente qualsiasi intervento militare – sia che avvenga in forma indiretta armando i ribelli, sia che avvenga in forma diretta attraverso la creazione di "zone cuscinetto" (anche se non necessariamente mediante un coinvolgimento militare occidentale in prima linea) – ben lungi dal fermare il bagno di sangue, farà impennare drammaticamente la distruzione materiale ed il sacrificio di vite umane.
In Libia, ad esempio, l'intervento della NATO ha letteralmente decuplicato le perdite: se il bilancio si aggirava tra le 2.000 e le 3.000 vittime prima dell'intervento, quando il conflitto si è concluso esso era ormai attorno ai 30.000 morti.
Ed in Siria le cose potrebbero andare ancora peggio, visto che il paese è abitato da oltre 20 milioni di persone, e presenta centri abitati densamente popolati e compositi da un punto di vista etnico e confessionale.
Anche se si dovesse inizialmente scegliere di armare l'FSA, con l'intenzione di evitare un intervento militare diretto, ciò significherebbe prolungare il conflitto a tempo indeterminato, aumentando i rischi di destabilizzazione regionale e non escludendo la possibilità che un intervento armato esterno prima o poi diventi "inevitabile".
L'FSA è un'accozzaglia di milizie costituita da disertori e civili, frammentata al suo interno, male armata e priva di una coesa struttura di comando, e pertanto in grado solo di compiere azioni di guerriglia. Le sue capacità militari sono molto inferiori a quelle delle forze armate siriane, a loro volta ben più potenti delle forze libiche che erano fedeli a Gheddafi.
Per rendere l'FSA in grado di "impensierire" realmente le forze del regime sarebbe necessaria una prolungata azione di addestramento, di coordinamento e di intelligence da parte dei paesi che decidessero di sostenerlo, il che implicherebbe fra l'altro un'adeguata organizzazione delle "retrovie" in paesi confinanti come la Turchia, con pesanti implicazioni per tali paesi.
LIBANO E IRAQ: PROVE DI CONFLAGRAZIONE REGIONALE
In realtà, ben più utile della Turchia ai fini del rifornimento delle milizie dell'opposizione siriana sarebbe il Libano, poiché geograficamente più vicino alla capitale Damasco ed alle roccaforti ribelli.
Già adesso l'FSA utilizza le vie di contrabbando attraverso il confine siro-libanese per approvvigionarsi. Tuttavia ciò comporta anche rischi di escalation e di destabilizzazione del Libano.
Nella Valle della Bekaa, ad esempio, vi sono villaggi libanesi a maggioranza sunnita che appoggiano il partito al-Mustaqbal di Saad Hariri, i quali riforniscono i ribelli siriani. Ma la Bekaa è anche una roccaforte di Hezbollah, il movimento sciita libanese rimasto al fianco del regime siriano.
Inoltre, il timore che le forze armate siriane possano compiere incursioni in territorio libanese per fermare il traffico di armi diretto ai ribelli ha ultimamente spinto l'esercito libanese a pattugliare intensamente il confine.
Ma ciò ha portato alcuni politici della coalizione del 14 Marzo (che è guidata dallo stesso Hariri, e di cui il partito al-Mustaqbal fa parte) ad accusare il governo (guidato dalla coalizione dell'8 Marzo, a cui appartiene invece Hezbollah) di svolgere azioni che di fatto vanno a vantaggio del regime siriano.
Vi sono poi le Forze della Sicurezza Interna (ISF), anch'esse parte dell'apparato di sicurezza libanese, che sono a maggioranza sunnita, e ritenute vicine a Hariri. A differenza dell'esercito, membri delle ISF avrebbero un ruolo di primo piano a sostegno del traffico di armi diretto ai ribelli.
Da quanto detto, e più in generale dalla complessiva divisione del panorama politico libanese in forze vicine al regime di Damasco ed in forze ad esso ostili, risulta evidente che un aggravarsi del conflitto in Siria rischia di infiammare anche il Libano.
Pochi giorni fa, violenti scontri armati sono scoppiati nella città di Tripoli, nel nord del paese, tra un quartiere a maggioranza alawita – la stessa comunità a cui appartiene il presidente siriano – e un quartiere a maggioranza sunnita, schierato invece con la ribellione sunnita in Siria.
In Libano vi sono una ventina di comunità religiose ed etniche differenti, e la divisione dei libanesi in "filo-siriani" e anti-siriani" è un retaggio della guerra civile e della presenza militare siriana protrattasi nel paese fino al 2005.
La comunità cristiana, in particolare, è divisa fra i due campi. Lo scorso settembre Bechara Rai, patriarca della Chiesa maronita, che in passato era stata tradizionalmente critica nei confronti di Damasco, fece scalpore dichiarando che la presenza cristiana in Medio Oriente sarebbe stata messa in pericolo se Assad fosse caduto.
Sul versante siro-iracheno le cose non sono meno complicate.
Si ritiene che vi siano circa 1,5 milioni di profughi iracheni in Siria. Molti di essi sono baathisti fuggiti dall'Iraq dopo il crollo del regime di Saddam. La Siria li accolse in nome della comune appartenenza baathista e sunnita.
Ma recenti notizie indicano che i rifugiati iracheni non sono più i benvenuti nel paese. Alcuni di loro sono stati sequestrati o uccisi. Essi sono visti con sospetto sia dal regime che dai ribelli.
A questi sospetti contrapposti contribuiscono le notizie provenienti dall'Iraq, che parlano da un lato di uomini armati che starebbero attraversando il confine per combattere al fianco del regime siriano (la corrente dello sciita Muqtada al-Sadr, ad esempio, che sostiene l'attuale governo iracheno, non solo ha espresso la propria solidarietà al regime di Damasco, ma secondo alcune voci starebbe inviando anche uomini), dall'altro di jihadisti sunniti diretti anch'essi in Siria per sostenere però i ribelli.
Mentre il governo centrale di Baghdad ha espresso ultimamente posizioni via via più vicine al governo siriano, alcuni religiosi sunniti nel nord dell'Iraq avrebbero invocato il "jihad" contro il regime di Assad.
A complicare ulteriormente le cose, in un recente messaggio, il leader di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri ha invitato a rovesciare il "pernicioso regime di Damasco". Secondo alcune fonti giornalistiche, ambienti dell'intelligence americana riterrebbero che l'attentato del 23 dicembre a Damasco ed il recente attacco suicida che ha ucciso almeno 28 persone ad Aleppo siano effettivamente opera di affiliati ad al-Qaeda in Iraq.
E' dunque evidente che un'escalation in Siria avrebbe gravi ripercussioni in tutto il Medio Oriente, ed a maggior ragione in Iraq, dove le tensioni settarie sono riemerse all'indomani del ritiro americano, e dove si è registrata una terribile ondata di attentati all'inizio di quest'anno.
Solo invertendo l'attuale tendenza di progressiva militarizzazione della crisi siriana, e di crescente polarizzazione internazionale attorno ad essa ed alla limitrofa crisi iraniana, si potrà evitare che la Siria sprofondi in un baratro che potrebbe rivelarsi peggiore di quello iracheno e trascinare con sé l'intera regione.
L'angoscioso interrogativo è se non sia già troppo tardi per fermare questo perverso meccanismo che sembra aver ormai acquisito una dinamica propria.