120323ocseIntervista ad Antonella Stirati

«I dati empirici, anche dell'Ocse, non mostrano alcuna relazione positiva tra flessibilità del lavoro e competività»
Docente di economia politica a Roma Tre, Antonella Stirati è autrice di numerose ricerche sul mercato del lavoro, distribuzione del reddito e occupazione.
Questa «riforma» ha l'efficacia che promette, su crescita e occupazione?
Tra gli economisti esistono diverse prospettive teoriche che danno risposte molto diverse alla domanda «che effetti ha la flessibilità sull'occupazione?». C'è impostazione tradizionale, premessa per le politiche liberiste, secondo cui questa flessibilità può avere effetti positivi; e una, totalmente diversa, secondo cui queste misure o sono inefficaci o danno risultati negativi. I dati, prodotti anche da organizzazioni come l'Ocse - sempre favorevoli alla flessibilizzazione - provano che la relazione tra questa e il tasso di disoccupazione, o occupazione giovanile, ecc, non esiste sul piano empirico.

È un problema solo ideologico?
Non solo. Le ricerche empiriche tendono a smentire sistematicamente la teoria liberista su questo punto, anche se va avanti per una fede indiscussa su alcuni princìpi estremamente controversi. Anche sul piano empirico, il più recente rapporto Ocse sulla disugualianza dice che che la flessibilità del lavoro non ha effetti chiari sull'occupazione, ma ne ha sicuramente sul livello dei salari: li abbassa.
Le minori tutele indeboliscono il potere contrattuale dei lavoratori?
Certamente... In più scaricano sugli stessi lavoratori, o comunque sui cittadini che pagano i contributi che debbono finanziare la disoccupazione, i costi delle fluttuazioni dell'occupazione nel ciclo; altrimenti a carico delle imprese. Quando c'è un ciclo negativo, le aziende si liberano di lavoratori in più e quei costi vengono sopportati da chi perde il lavoro e da quelli che pagano i contributi.
Nella crisi, questa non diventa una politica «pro ciclica» negativa?
Gli effetti rischiano di essere avversi all'occupazione, nella misura in cui viene ulteriormente peggiorata la distribuzione del reddito; e quindi il potere di acquisto delle famiglie con reddito da lavoro dipendente.
Da che deriva questa fiducia nel fatto che la flessibilità del lavoro sia l'unico elemento che dinamizza la crescita?
Vedo due o tre possibilità. Una è la cieca fiducia nell'idea che i mercati si aggiustano sempre da soli; e più sono lasciati liberi di operare, meglio realizzano la piena occupazione. Un'idea teorica non solo astratta, ma anche molto controversa; più ideologia che scienza. La seconda possibilità, ancora poco nota, è quella per cui i paesi deboli della Ue (Grecia, Spagna, in misura molto minore l'Italia) con grandi disavanzi nella bilancia commerciale - non potendo più svalutare, a causa della moneta unica - prendono la via della deflazione salariale. In modo da determinare una caduta dei prezzi rispetto a quelli dei paesi più forti, come la Germania. E che questo possa aggiustare i conti con l'estero.
Ed è vero?
È un po' una follia... Da un lato, nessuno ci assicura che se cadono i salari nominali cadono anche i prezzi; anzi, in genere non è così, specie in Italia. Quello che cade davvero sono i salari reali, i consumi; la crisi si aggrava. Per correggere gli squilibri, i prezzi dovrebberro scendere in misura significativa; ma questo creerebbe problemi immensi, perché una caduta dei prezzi aggrava la posizione dei soggetti indebitati. Il governo, le imprese o le famiglie avrebbero difficoltà maggiore a onorare i debiti. Cadrebbero le entrate fiscali, mentre il debito resta stabile. Con un seguito enorme di insolvenze. Lo stiamo vedendo in Grecia, dov'è stata applicata la deflazione salariale: Pil crollato, debito pubblico raddoppiato, ecc. Se questa è l'idea, è folle. Se bisogna aggiustare i disavanzi, la Ue dovrebbe chiedere compattamente alla Germania di fare qualcosa per ridurre il suo surplus. Tipo: aumentare i salari interni, facendo crescere la domanda interna di merci prodotte in altri paesi.
E il terzo argomento?
«Ce lo chiedono i mercati, serve ad abbassare lo spread»... In realtà - lo dicono anche i moderati - quel che conta per i mercati finanziari è l'atteggiamento dell'autorità monetaria. Se ci sono istituzioni capaci di rintuzzare la speculazione al ribasso, questa non si fa. Ora si è fermata perché la Bce ha dato grandi finanziamenti alle banche europee; ma domani potrebbe reimpazzire, se la Spagna o il Portogallo entrano in crisi. Quindi, questa riforma è inefficace rispetto ai mercati.
Ma ce lo ha chiesto la Bce...
E vien da chiedersi a quale titolo. Lì servirebbe un'opportuna azione diplomatica del governo italiano, con alleanze serie in Europa. Ma che questo governo non mi sembra orientato a fare.
Altre possibili interpretazioni?
Quella di una «lotta di classe» mai tramontata. Ossia che l'obiettivo sia cavalcare la crisi per ottenere quello che Draghi ha chiamato apertamente «superamento del modello sociale europeo». Non perché insostenibile economicamente, ma perché ora prevalgono interessi diversi.

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