di Domenico Moro

Ci vuole prudenza quando si vogliano estrapolare tendenze comuni da test elettorali diversi di Paesi diversi, come Italia, Grecia, Germania e Francia. L’unico dato certo, più che lo spostamento dell’asse politico verso il centro-sinistra, è, come avevamo rilevato in precedenza [1], l’accentuarsi della tendenza allo scollamento tra elettorato e “sistema dei partiti”. Del resto, non è tanto la sinistra “tradizionale” a vincere, quanto i partiti di governo a perdere.

E i partiti di destra, essendo stati al governo quasi ovunque in Europa, scontano le perdite maggiori. La controprova è il collasso dei partiti socialisti in Spagna e Grecia. Lo scollamento tra corpo elettorale e sistema politico è rappresentato da due indicatori: l’aumento dell’astensionismo a livelli mai raggiunti prima e la frammentazione del voto, con l’emergere di una pletora di partiti appartenenti o a culture politiche fino ad ora marginalizzate (di estrema destra, o xenofobe) o fuori dalle culture politiche tradizionali (Piraten, grillini). La conseguenza politica più importante è il quasi collasso del sistema bipolare, segnatamente nella forma del bipartitismo, che si è affermato in Europa occidentale dal dopoguerra e che ha sempre visto l’alternanza al governo tra un partito “conservatore” e uno “liberal-socialista”.
Questo processo affonda le sue radici all’inizio degli anni ’90, accentuandosi negli anni 2000, con i secondi posti del Fn in Francia nel 2002 e del Pvv in Olanda nel 2009. Oggi, è arrivato a un punto di maturazione in molti Paesi europei, specialmente nell’area euro. La punta avanzata è la Grecia, dove l’astensionismo ha raggiunto il 35% (-6% dei votanti rispetto alle elezioni 2009), i due principali partiti passano dal 77,4% al 32,1% dei voti totali, e il Partito socialista retrocede a terzo partito. Certo, la Grecia sconta una situazione più grave, ma in Spagna e in Francia la tendenza è di segno simile. In Spagna la partecipazione alle politiche di novembre 2011 è diminuita, rispetto al 2008, di quasi 2 punti percentuali, e le schede nulle sono raddoppiate, con 1,5 milioni di voti validi in meno. Il Partito Popolare ha stravinto con il 44,6% dei voti, ottenendo in realtà solo 500.000 voti in più. La sua vittoria è dipesa dal tracollo dei socialisti, al governo per quasi due legislature, che hanno perso 4,3 milioni di voti. Anche qui il sistema quasi bipartitico ha visto la frammentazione del voto in una moltitudine di sigle. Pure in Francia sono aumentati la frammentazione del voto e l’astensionismo, che ha raggiunto il venti per cento (+ 4% rispetto alle presidenziali 2007). Con la vittoria di Hollande si è voluto vedere l’arrivo di un nuovo vento di sinistra. In realtà, complessivamente l’elettorato appare essersi spostato a destra, se confrontiamo la somma dei voti ottenuti al primo turno da Hollande (28,6%) e Mélanchon (11,1%) con quelli raccolti da Sarkozy (27,2%) e da Le Pen (17,9%), che fa raggiungere al Fronte nazionale la percentuale di voti più alta dal dopoguerra. Si noti, inoltre, che il voto di un terzo degli elettori, a sinistra e a destra, si pone fuori dalle compatibilità europee. Nel Nord Reno-Westfalia, il calo della CDU è una punizione della politica restrittiva della Merkel nel cuore stesso dell’Eurozona. Sebbene in forme meno virulente, anche qui il bipartitismo perfetto è da tempo in crisi, come confermato ora dalla crescita dei Liberali all’8,5% e dall’affermazione di un nuovo partito, i Piraten, che raccoglie il 7,5%, mentre Die Linke scende al 2,5%.

Le cause di fondo di queste tendenze sono i processi di ristrutturazione produttiva e di deregolamentazione del mercato del lavoro, che attraversano l’Europa da diverso tempo. Il calo dei salari reali e l’aumento di disoccupazione e sottoccupazione, combinato con l’attacco al welfare state determinano il riaffacciarsi della povertà di massa in Europa occidentale. Come abbiamo già avuto modo di far notare [2], la rinascita di un classico “esercito industriale di riserva” e lo sfumare delle differenze tra “garantiti” e “non garantiti” è alla base della sfiducia nei partiti tradizionali, anche quelli di sinistra, che non appaiono in grado di contrastare i processi in atto, e nel sistema politico nel suo complesso. Il declino produttivo iniziato nel 2007-2009, la crisi dei debiti sovrani e le pressioni a comprimere spese sociali e ad aumentare la pressione fiscale hanno accentuato bruscamente queste dinamiche. Le enormi tensioni che stravolgono il tessuto socio-economico continentale non si limitano ad investire la sola classe operaia e salariata. Sono coinvolte le classi sociali intermedie (artigianato, piccolo commercio, professionisti, ecc.), le Pmi industriali, fino a interessare gli equilibri di potere all’interno del grande capitale monopolistico e finanziario a livello statale ed europeo. Tutto questo ha un impatto anche sulla politica e sui partiti politici che delle classi sociali e delle loro frazioni sono espressione.

Avanzato degrado del sistema bipolare in Italia

In Italia lo scollamento tra società civile e società politica è molto avanzato, come dimostrano le recenti elezioni comunali. In primo luogo, si accentua la tendenza alla non partecipazione al voto, sceso dal 73,74% delle comunali 2007 al 66,87% del 2012 (-6,87%) [3]. Senza Grillo, l’astensione sarebbe stata maggiore, se è vero che il 30% dei suoi voti vengono da chi in precedenza si era astenuto [4]. Sono, comunque, tutte le elezioni a far registrare simili dati. Tra le politiche del 2006 e quelle del 2008 la partecipazione al voto è calata del 3,11%, cui si aggiunge l’aumento delle nulle e bianche dal 2,44% al 3%, mentre tra le europee del 2004 e del 2009 è calata del 6,62%. In secondo luogo, aumenta la frammentazione del voto. Questa è collegata al successo di un partito nuovo, il Movimento 5 stelle, e al forte aumento del peso delle liste civiche, che, se nascondono la reale forza di Pdl, Pd e Lega, ne rivelano anche la difficoltà a presentarsi agli elettori con il proprio simbolo.

Sebbene influenzato dall’incidenza delle liste civiche, il dato politico principale è il quasi-collasso del sistema politico, con il tracollo di uno dei suoi pilastri, il Pdl, e di un altro importante attore degli ultimi venti anni di bipolarismo, la Lega. La vittoria del Pd, che pure Bersani rivendica, è soprattutto un effetto ottico falsato dal tracollo del Pdl e della Lega, perché anche il Pd perde molto, mentre l’Udc fallisce nel suo obiettivo di porsi come terzo polo, non raccogliendo il voto perso dal Pdl (Tab. 1). In 24 comuni capoluogo, il Pdl perde, rispetto alle elezioni regionali del 2010, 175mila voti (-54,4%), la Lega 85mila (-67,4%), il Pd 90mila (-29%), l’Udc 3.700 voti (-6,5) [5].

Sul tracollo del Pdl e della Lega hanno inciso l’avversa campagna mediatica e gli scandali che hanno coinvolto prima Berlusconi e, non casualmente prima delle elezioni, Bossi. Tuttavia, la ragione più importante sta nell’incapacità di questi due partiti di difendere pezzi importanti del loro blocco sociale, le Pmi e l’artigianato, soprattutto sulla questione fiscale. La Lega, in particolare, sconta il fallimento del federalismo, tradottosi nell’aumento - invece che nella riduzione - della pressione fiscale. Il Pdl ha pagato l’appoggio al governo Monti, che ha fatto dell’attacco a pezzi importanti del blocco sociale di destra - anche mediante Equitalia - uno dei suoi assi portanti. Pure le vicende legate alla grande industria pubblica, altra importante componente del blocco sociale di destra, dalla defenestrazione di Guarguaglini agli scandali che hanno coinvolto Orsi, alle nuove privatizzazioni, hanno giocato un ruolo nell’indebolimento del Pdl e della Lega. Il Pdl, inoltre, si è rivelato diverso da quello che molti a sinistra hanno sempre pensato. Non un partito-azienda monolitico, bensì un agglomerato di interessi e potentati locali, tenuto insieme dalla figura “carismatica” di Berlusconi, che tende a sfarinarsi sul territorio nel momento in cui la figura del leader si eclissa.

Anche il Pd ha pagato il suo appoggio al governo Monti, e in particolare l’attacco all’articolo 18 e alle condizioni dei lavoratori. Tuttavia, l’essere fuori dalla campagna scandalistica mediatica e la non irresistibile pressione esercitata dal sindacato e dai partiti alla sua sinistra hanno consentito di limitare le perdite, almeno in confronto a quelle di Pdl e Lega. Soprattutto il Pd, sebbene sia un partito composito culturalmente e socialmente, appare essere, molto più che il Pdl e la Lega, in linea con le tendenze di fondo prevalenti in questo momento nei circoli economici dominanti in Europa e in Italia.

In sintesi, quello in atto, in Italia e in Europa, è un attacco condotto - sia contro la classe operaia e i lavoratori salariati, sia contro i settori sociali intermedi e le Pmi - dal grande capitale monopolistico e finanziario in funzione del riassetto dei processi di accumulazione europei e mondiali. Il punto è che questo processo sconquassa il sistema politico, che aveva garantito il funzionamento al modello di “democrazia occidentale” per decenni, aprendo la strada ad esiti inediti che è necessario comprendere.

I risultati della sinistra e dei comunisti in Europa e in Italia

Pur con formule politiche variegate, i comunisti e le forze della “sinistra radicale” escono rafforzati dalle ultime competizioni elettorali europee. Specialmente in Grecia (KKE 8,48%, Syriza 16,68%), Francia (11,1%) e Spagna (6,92%). In Italia, il quadro che risulta dalle comunali si discosta da quello prevalente a livello europeo. Infatti, secondo l’Istituto Cattaneo, la “sinistra radicale”, comprendendo in essa Sel e Fds, risulta perdere oltre 12mila voti assoluti, rispetto al 2010, con una contrazione del 15,6%. L’Idv registra, essenzialmente a favore di Grillo [6] una perdita di quasi 56mila voti, pari al -58,1%. Secondo D’Alimonte del Cise, nei 26 comuni capoluogo, la Fds avrebbe il 2,2% dei voti espressi e Sel il 2,8% [7].

Vediamo qualche caso in dettaglio. A Genova, similmente alla tendenza nazionale, a partire dalle comunali 2007 (22mila voti in meno, pari al -50%, rispetto alle politiche 2006) si è assistito ad un continuo calo dei voti ai comunisti e alla sinistra, con una parziale interruzione nel 2009. Prendiamo in esame specificatamente il periodo 2009-2012, perché Sel e Fds sono presenti autonomamente in questo lasso di tempo. Alle europee del 2009 la Fds (all’epoca lista comunista) prende 12.712 voti (4,35%), alle regionali del 2010 10.569 (3,95%), alle comunali del 2012 5.274 (2,98%). Sel invece passa da 7.120 voti (2,44%) a 7.493 (2,8%) e a 11.606 (5,02%). Altro caso significativo è Verona, dove la Fds passa dai 2.545 voti del 2009 (1,88%), ai 1.686 del 2010 (1,42%), ai 1.189 del 2012 (0,97%). Sel invece passa da 2.691 (1,99%) voti a 2094 (1,77%) a 3.260 (2,67%). Ad Alessandria, Monza, Lucca, Piacenza, Pistoia, Catanzaro, ecc. la tendenza è pressappoco dello stesso segno (Tab. 2). C’è una forte variabilità del risultato della Fds: in qualche caso il voto assoluto si dimezza, come a Genova, Brindisi e Pistoia, e in qualche altro caso, come a Parma e a Rieti, fortunatamente raddoppia. Ma il dato medio è la conferma di una continua erosione del voto, in assoluto e in percentuale, della Fds e di Sel, che è compensato in parte e solo al Nord da una limitata crescita di Sel, che invece perde molto al Sud. Se, poi, nella sinistra includiamo l’Idv, il risultato diventa veramente negativo. Certo, è difficile generalizzare i dati, ma 24 o 26 capoluoghi rappresentano un campione, se non proprio statisticamente significativo, almeno indicativo delle tendenze nel Paese. Bisognerebbe capire perché la sinistra, e in particolare i comunisti, non hanno intercettato almeno una parte dei voti persi dal Pd. Infatti, a differenza del Pd, Fds e Sel non dovrebbero pagare lo scotto di essere nella maggioranza che sostiene Monti e neanche essere identificati con la “casta”, visto che non sono in Parlamento. Inoltre, hanno assunto una posizione di difesa dell’articolo 18 e di opposizione alla controriforma del lavoro. In una situazione di grave attacco alle condizioni della classe operaia e salariata una forza di sinistra radicale avrebbe potuto, come accaduto altrove in Europa, guadagnare consensi o almeno non perderne.

Molte e complesse sono le ragioni che hanno determinato questo risultato. Potremmo iniziare a sintetizzarle dicendo che la Fds ha assunto un profilo troppo basso, non adatto a generare adesione fra i suoi referenti di classe. Tale basso profilo è riconducibile a due ragioni principali. La prima è l’impasse del processo di unità dei comunisti, che ha sterilizzato le energie di cui ci sarebbe stato bisogno. La seconda consiste nell’aver dato priorità alla questione delle alleanze elettorali, che, invece, andrebbe subordinata all’individuazione di un chiaro programma e di una posizione forte contro la crisi, non solo economica, ma anche istituzionale e politica. In una fase sociale incandescente come quella attuale, un posizionamento poco definito può portare all’erosione dei consensi.

Le alleanze, ad ogni modo, non possono essere perseguite né rifiutate “a prescindere”, ma vanno valutate sulla base dei vantaggi e svantaggi complessivi che portano, e vanno costruite sulla base di alcuni punti veramente qualificanti condivisi con gli interlocutori. Questo consente anche, se qualcuno degli interlocutori dovesse rifiutare l’alleanza, di andare avanti lo stesso. Per questo l’unità dei comunisti non può svilupparsi soltanto su una base identitaria, ma richiede un progetto politico-culturale forte, che si esprima anche in una maggiore visibilità pubblica. La manifestazione di massa della Fds a Roma contro il governo, purtroppo tenutasi dopo le elezioni, è stata un primo valido esempio in questo senso, cui va dato seguito e continuità. La fase discendente della sinistra è iniziata alle politiche 2008, quando perse quasi 2,8 milioni di voti, ma fu significativamente preceduta dai risultati negativi delle comunali del 2007. Fu, dunque, connessa alla partecipazione al governo Prodi. Molti degli elettori persi allora sono rimasti nell’astensione, oppure sono andati ad altre formazioni (vedi scheda allegata). L’obiettivo principale è il recupero di questi voti.

Gli scenari europei e italiani

In Europa è in atto un processo di ristrutturazione economico, sociale e politico epocale. Di fronte ad una crisi di sovraccumulazione peggiore di quella del ’29, il capitale Ue ha oggi due obiettivi fondamentali: compensare il calo e le disparità del saggio di profitto delle diverse branche e frazioni dei capitali nazionali e aumentare la produttività del lavoro sociale. Questo richiede che, a livello europeo e degli stati-nazione, si aumenti quanto più sia possibile la mobilità del capitale e della forza lavoro. Assoluta libertà di commercio e dei capitali, puntellamento del sistema creditizio, deregolamentazione del mercato del lavoro sono fondamentali. Ugualmente necessaria è la subordinazione delle diverse sfere economiche al capitale e quindi la rimozione dei settori intermedi che ostacolano questi processi [8]. La riduzione del debito pubblico e, quindi, il Fiscal compact sono strumento fondamentale di questa strategia.

Rispetto a questo scenario, l’elezione di Hollande cambia qualcosa? Sta maturando una posizione della socialdemocrazia europea in contrasto con il liberismo? No, non c’è un piano socialdemocratico alternativo alla destra liberista. Questa è decotta ed il centro-sinistra è chiamato a sostenere l’edificio pericolante. Il rigore, necessario alla mobilità finanziaria e al sistema creditizio, è sempre al primo posto. Philippe Aghion, consigliere di Hollande, sul Financial Times si è preoccupato di rassicurare i “mercati”, chiarendo che “rinegoziare” il Fiscal compact non vuol dire modificarlo, ma semplicemente integrarlo con un pacchetto di misure di crescita [9]. Concetto ribadito da Pierre Moscovici, ministro dell’economia. Le misure di crescita si sostanziano soprattutto nell’emissione di eurobond per finanziare opere infrastrutturali, cioè la montagna che partorisce il topolino. Anche la scelta dei ministri è significativa, Moscovici e Cahuzac, il ministro del bilancio, sono dell’ala “liberista” del Ps e allievi di Strauss-Khan, mentre l’ala “socialdemocratica” è stata estromessa, a partire dalla Aubry, che pure è il segretario del partito. Sempre secondo Aghion, lo stesso Hollande garantisce la massima affidabilità europeista (cioè di rigore) perché viene dalla Corte dei Conti e dalla scuola di Delors e, al contrario di altri socialisti, non è keynesiano. Ad ogni modo, l’accettazione del Fiscal compact, vero elemento dirimente, è fatta propria da tutta la “socialdemocrazia” europea, dalla Spd tedesca al Pd. In pratica, non c’è da sperare sul piano economico in rettifiche della linea europea in atto.

Sul piano politico, misure ultra maggioritarie sembrano garantire a mala pena la tenuta di sistemi politici in crisi. In Francia la vittoria risicata di Hollande e la relativa tenuta del sistema è dovuta al carattere spiccatamente maggioritario dell’elezione diretta del Presidente. Ma l’attacco al bipartitismo proseguirà alle prossime politiche. La Lepen vi si sta preparando, posizionandosi con un profilo autonomo, come dimostra il rifiuto di ogni appoggio al ballottaggio per Sarkozy, e che già si è dimostrato per lei pagante. In Grecia, l’aumento scandaloso del premio al primo partito (ND con appena il 18,8% dei voti ha ottenuto 108 seggi su 300) non è valso a formare un governo di coalizione. In Italia, la prima conseguenza del tracollo del bipolarismo è la rapida marcia indietro sulla modifica in senso proporzionale del sistema elettorale. Pd e Pdl sono intenzionati o a votare con il vecchio porcellum o con il doppio turno magari con collegi piccoli, alla spagnola, in modo da mettere fuori gioco i partiti più piccoli e risparmiarsi alleanze indigeste.

Quindi, si acuirà la contraddizione tra un sistema politico irrigidito e squalificato e l’aumento della povertà e della concentrazione della ricchezza. Le conseguenze di questo combinato saranno e sono già devastanti: l’eliminazione dei meccanismi della democrazia formale borghese incompatibili con la “governabilità” dell’economia e della spesa pubblica.

Il “grillismo”

L’affermazione del partito di Grillo è il prodotto della rabbia sociale dovuta alle contraddizioni tra sistema politico e società. Una rabbia che si esprime, però, in una forma rovesciata, perché le responsabilità della crisi sono spostate dal meccanismo di accumulazione capitalistico e indirizzate, anche grazie a campagne mass-mediatiche continuative e ben organizzate, a fattori sovrastrutturali, la corruzione, le spese e gli sprechi del sistema partitico, ecc. Il grillismo si nutre di questo humus ideologico e mediatico, che, cavalcando le tematiche che tirano, si tiene lontano dalle cause vere della crisi. Pur con un interclassismo e un eclettismo notevoli, non a caso il Movimento 5 stelle assume parti importanti del programma della Confindustria, come l’abolizione dell’Irap [10]. Grillo pubblica con Rcs [11] gruppo editoriale del Corriere della Sera (il giornale di Stella, l’inventore della “casta”) e, quindi, del salotto buono della borghesia italiana, mentre il Sole 24ore giudica i punti del suo programma economico “dettati dal buon senso" [12] e a Parma Pizzarotti vince al ballottaggio, raccogliendo i voti dei candidati di Pdl e Udc [13]. Del resto, a livello nazionale, oltre il 30% del voto grillino viene dal Pdl, dall’Udc e soprattutto, in proporzione, dalla Lega (il 16,4%) [14]. Soprattutto, quello di Grillo è l’ennesimo partito “carismatico” e “antisistema”, di cui non sappiamo se avrà esiti duraturi, ma di sicuro contribuirà a dare un'ulteriore spallata agli assetti istituzionali e costituzionali su cui le élite dominanti stanno lavorando da venti anni.

Necessità di un profilo più alto dei comunisti

A differenza di quanto qualcuno dice, non sta morendo la “seconda repubblica”, mai veramente decollata, ma sta volgendo alla fine la lunga agonia della “prima repubblica”. Con essa declina definitivamente il vecchio compromesso di classe e il modello di lotta di classe “democratica”. Tutto, dunque, sembra preannunciare una qualche forma, inedita ma chiara, di autoritarismo.

Tuttavia, gli esiti del movimento della storia non sono determinati a priori. Di fronte a un attacco epocale ai lavoratori e a trasformazioni sociali di vasta ampiezza e complessità c’è bisogno di una maggiore riflessione a sinistra, che generi un approccio “forte” e si sostanzi in un profilo più alto da parte dei comunisti e di tutta la sinistra. Al voto politico manca meno di un anno e milioni di elettori sono ancora incerti su chi votare, la sinistra dovrebbe avere il coraggio di mettersi in gioco per conquistarne una parte, con un programma chiaro contro la crisi e la volontà politica di portarlo avanti. La realtà è cambiata. Non cambiare con essa può rendere disastroso l’atterraggio.

 

da marx21.it

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