di Piero Di Siena
Il reportage di Antonino Capennì e Paolo Caputo sulla Sata di Melfi, apparso qualche giorno fa su questo giornale, conferma come le condizioni di lavoro nello stabilimento lucano della Fiat dipendano ormai da un regime di fabbrica dispotico e feroce senza precedenti nella storia dei rapporti tra capitale e lavoro nel nostro Paese e nella stessa azienda automobilistica torinese.
Nel corso di questi mesi - soprattutto in seguito al licenziamento di Barozzino, Lamorte e Pignatelli – si è spesso sostenuto che a Melfi, come negli altri stabilimenti Fiat, si stesse tornando agli anni Cinquanta del secolo scorso, agli anni di Valletta e dello scontro frontale con la Fiom, alla pratica dei reparti “confino” per stroncare e isolare le avanguardie sindacali. Niente di più falso. Non c’è paragone tra gli anni Cinquanta a Mirafiori e quello che accade oggi a Melfi e Pomigliano. Allora la lotta al sindacato dei metalmeccanici della Cgil si accompagnava a un ben altro rapporto con i lavoratori. Certo, lo sfruttamento alla catena di montaggio era durissimo, come oggi. Ma i salari Fiat erano mediamente i più alti in Italia, e l’azienda cercava di fare terra bruciata attorno al sindacato di categoria della Cgil con la costruzione (nella migliore tradizione fordista) di una sorta di welfare aziendale (le vacanze riservate ai dipendenti, gli asili aziendali, i pacchi natalizi ai figli dei dipendenti). Si era alla vigilia del “miracolo economico”, del boom della motorizzazione privata e dell’avvento dell’”utilitaria”. L’azione repressiva non riguardava gli operai comuni ma le avanguardie sindacali. E i reparti confino non erano quelle vere e proprie bolge infernali di supersfruttamento di cui scrivono Capennì e Caputo ma luoghi dove i dirigenti sindacali di fabbrica spesso venivano costretti a un ozio forzato, a spazzare per intere giornate i pavimenti per colpirli nel loro orgoglio di operai di mestiere e tecnici sperimentati, come appare evidente dalla magistrale ricostruzione del diario di fabbrica degli anni Cinquanta di Aris Accornero.
Oggi invece, oltre che sui dirigenti sindacali, la violenta azione dispotica si esercita sugli operai comuni, sugli infortunati che sono costretti a non denunciare gli incidenti sul lavoro e non chiedere la malattia, sugli operai che hanno raggiunto la condizione di ridotte capacità attitudinali a causa delle condizioni nelle quali si lavora alla catena e che continuano a essere adibiti a mansioni normali. Il combinato disposto di cassa integrazione e aumento vertiginoso dei ritmi nei giorni di lavoro residui che lascia pressoché invariati i livelli produttivi fa sì che, a differenza che negli anni Cinquanta, gli operai Fiat siano tra i meno pagati d’Italia e, per lo più, in parte con i soldi dell’Inps e dello Stato.
E’ mia impressione che più che al ritorno agli anni del fordismo, come spesso con superficialità si afferma, sul piano dell’organizzazione del lavoro e delle relazioni sindacali in Sata come negli altri stabilimenti della Fiat siamo di fronte al “rovescio” speculare di quel “modello Giapponese” e della “fabbrica integrata” che proprio la nascita dello stabilimento di Melfi aveva rappresentato nel nostro paese. In comune con quelle promesse, in gran parte disattese, è il tentativo di sostituire la contrattazione collettiva con la responsabilità individuale del lavoratore o della lavoratrice. Solo che nell’impostazione originaria tale responsabilità si sarebbe dovuta esercitare attraverso la partecipazione alle decisioni, al miglioramento del prodotto, fino alla potestà di fermare la catena, alla realizzazione di quella che veniva definita “qualità totale” di processo e di prodotto attraverso la perfetta integrazione dei fattori (in particolare tra fattore umano e automazione). Ora essa avviene chiedendo al lavoratore di occultare “responsabilmente” gli infortuni subiti o la malattia, di accettare altrettanto “responsabilmente” attraverso il suo voto assetti della produzione sotto il ricatto della chiusura degli stabilimenti, di “confessare” le proprie mancanze nell’esecuzione del lavoro di fronte a tutto il reparto come sembra avvenga a Pomigliano. Altro che riduzione della forza lavoro allo stato di merce, come spesso si dice in polemica con le scelte imposte da Marchionne. L’impressione è che il tardo capitalismo della nostra epoca, nei rapporti di lavoro, ritorni a quello stato servile dei modi di produzione che l’hanno preceduto, a una sorta di dispotismo più simile a quello dell’antico modo di produzione asiatico che alle relazioni asimmetriche della civiltà industriale. Il ricorso ai tribunali da parte della Fiom non è solo dovuto al fatto che essa non ha alternative, essendole stata interdetta l’azione sindacale collettiva. Esso trova una sua intrinseca ragione nel fatto che a essere colpiti sono i diritti individuali delle persone che lavorano, che in via di principio sono tutelate dalla legge e dalla sua applicazione.
Comunque di fronte a questo corso delle cose non basta protestare e esprimere la propria pur legittima indignazione. Bisogna anche capire. Molti quesiti restano senza risposta. A cominciare dal rapporto che esiste tra questo regime di fabbrica in Italia, il ricorso alla cassa integrazione, e i processi d’internazionalizzazione della Fiat. Insomma, si ragiona poco di politiche industriali, della loro coerenza con le condizioni di lavoro, di quali possono essere le alternative ai progetti di Marchionne.
Mario Monti ci spiega a giorni alterni che di fronte ai processi di globalizzazione i governi sono impotenti e che non possono avere una propria politica industriale, e che per l’area industriale di Melfi sarebbe grasso che cola se vi rimanesse la componentistica per lo stabilimento serbo della Fiat. Ma anche la classe dirigente regionale è silente. E sebbene negli anni Novanta - di fronte alla presenza Fiat, alla scoperta del petrolio e all’industria del salotto allora fiorente – non abbia saputo fare quel salto culturale che avrebbe potuto trasformare il suo potere politico in azione egemonica rispetto alle novità economiche e produttive in atto, essa cercò di assecondare e promuovere attività di ricerca sui nuovi fenomeni che investivano la regione. La stessa inchiesta operaia alla Fiat di Melfi della metà degli anni Novanta, coordinata da me e Vittorio Rieser, non avrebbe avuto luogo se non vi fosse stato il patrocinio della presidenza del Consiglio Regionale della Basilicata. Non vi sarebbe stata l’inchiesta sulle operaie Fiat, coordinata da Anna Maria Riviello, senza il patrocinio della Provincia di Potenza, come non vi sarebbero stati i contributi dei ricercatori dell’Università della Calabria, e in particolare di Elisabetta Della Corte, senza l’iniziativa di Pietro Simonetti all’epoca alla guida del Comitato per il Lavoro della Regione Basilicata.
Oggi non c’è nulla che assomigli lontanamente a quella dimostrazione d’interesse. Segno anche questo che la crisi che stiamo attraversando non è solo economica ma anche di valori e di legittimazione delle nostre istituzioni.
Il Quotidiano della Basilicata, 23 giugno 2012