di Lorenza Carlassare
«Il rischio di un ennesimo stallo sulle riforme costituzionali ed elettorali, dopo l'eventuale fallimento del tentativo sperimentato in questi mesi, non sarebbe senza effetti per il Paese. Le forze politiche presenti in Parlamento si giocano su questo terreno larga parte della loro credibilità». E' questo il grave ammonimento dei senatori del Pd Ceccanti e Chiti, che hanno depositato un disegno di legge costituzionale per consentire l'indizione di un referendum costituzionale di indirizzo sulla forma di governo. Sconcerta l'attivismo di questi senatori e la loro pervicacia nell'intento di stravolgere la Costituzione in un senso o nell'altro.

Ed è sconcertante la disinvolta equiparazione fra riforme costituzionali, poco utili e non richieste, e riforma della legge elettorale da tutti invocata e assolutamente necessaria. Mischiando l'indispensabile con l'inutile-dannoso si confondono utilmente le idee. L'uso della parola «riforme», ormai quasi magica, buona per entrambe, consente di coprire una mistificante omologazione.

Il referendum d'indirizzo sarebbe del resto l'unica via d'uscita per chi voglia procedere a tutti i costi alla modifica della Costituzione. Come sarebbe possibile, altrimenti, far approvare una riforma come quella oggi al senato, basata su due testi fra loro incompatibili? Il primo, uscito dalla Commissione a fine maggio, che esalta i poteri del primo ministro riducendo i poteri presidenziali; il secondo, frutto di un'ispirazione berlusconiana, che prevede esattamente il contrario: un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, dotato di poteri politici forti sul modello della V Repubblica francese. Per rendersi conto della loro inconciliabilità basta pensare che un potere importante e delicato come lo scioglimento anticipato delle camere viene attribuito a un diverso titolare: nel testo concordato in Commissione spetta al Primo Ministro, nel testo aggiunto compete al solo presidente della Repubblica senza alcuna partecipazione governativa. Si tratta infatti di un decreto presidenziale esente da controfirma.

Con il referendum di indirizzo proposto dai senatori Pd - che richiede l'approvazione di un'apposita legge costituzionale non essendo previsto dalla Costituzione italiana - si sottoporrebbero agli elettori due quesiti e tre opzioni: Quesito 1: «Ritenete voi che si debba modificare la forma di governo parlamentare della nostra Costituzione?»; Quesito 2: «Se alla domanda precedente ha prevalso il Sì, ritenete voi che si debba preferire la forma di governo del primo ministro (soluzione 1) o la forma di governo semi-presidenziale (soluzione 2)?».

Come dicevo, ciò che interessa è cambiare, cambiare comunque, per consentire a chi governa massima libertà di azione e debolissimi controlli politici: fra le due opzioni, tanto differenti, c'è infatti un intento comune, il medesimo che ha traversato la lunga storia delle incessanti proposte di riforma: indebolire il parlamento, organo rappresentativo del popolo e quindi il popolo stesso; rafforzare i poteri di un unica persona, presidente della Repubblica o primo ministro che sia.
Non vale richiamare l'esperienza di altri paesi nei quali, al di là dei meccanismi istituzionali, gli anticorpi antiautoritari funzionano: in Francia, De Gaulle, con tutto il suo potere, si è spontaneamente dimesso dopo la risposta negativa del popolo francese a un referendum da lui proposto!

il manifesto, 29 giugno 2012

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