di Monica Lanfranco

“C’è una visione, e una versione, del desiderio maschile sul corpo femminile che lo vuole come una superficie sulla quale proiettare il proprio desiderio”. Ieri, a Vicenza (città nella quale qualche anno fa si discusse molto a partire dall’episodio della ragazza-vassoio, sul cui corpo svestito fu allestito un banchetto per un evento commerciale, non una riedizione della performance surrealista di Meret Oppenheimer dei primi del ’900), queste parole le ha pronunciate un uomo.

Sandro Bellassai, docente universitario e attivista del gruppo Maschile-plurale, era insieme a me invitato a dibattere sul corpo femminile tra mercato, realtà e immagine su invito del Forum delle associazioni femminili vicentine, che raccoglie gruppi che vanno dalle attivissime suore orsoline al gruppo femminista Femminile-plurale.

Dietro a quella versione del desiderio maschile, si è detto, c’è un preciso modo di intendere la (non) relazione con una donna, che ha talvolta come approdo concreto, nell’escalation della violenza scatenata dalla frustrazione per un rifiuto femminile, il femminicidio.

Il femminicida, così si chiama il violento che uccide una donna, non vede dall’altra parte del suo sguardo un essere umano, ma una sua proprietà, un suo diritto: il desiderio frustrato, il rifiuto, la rottura di consenso da parte dell’altra cancellano la percezione della donna come di una propria simile.

E’ lo stesso processo di disumanizzazione che consente, nella logica del nemico/inferiore, di poter uccidere in guerra, di massacrare nelle rivolte: è quello che chi studia le dinamiche belliche ha sentito raccontare, in tutte le lingue del mondo a tutte le latitudini.

Negarlo significa negare che il rosario che sgrana il numero di una donna ammazzata in Italia ogni due-tre giorni per mano di un ex fidanzato, amico, amante, marito, padre, parente configuri una guerra in atto. Una guerra poco visibile, una guerra a bassa intensità, i cui sintomi, visibilissimi questi, come le denunce, le richieste di aiuto e protezione rivolte anche alle forze dell’ordine, vengono, se non ignorati, comunque fortemente sottovalutati. Le emergenze sono sempre altre, sempre, quando sono le donne a indicare le priorità.

La ragazza perseguitata dal fidanzato a Palermo aveva chiesto aiuto, ma era solo una delle tante ragazze con un ex fidanzato un po’ troppo possessivo. Ora quella ragazza, invece della protezione e dell’ascolto che avrebbe dovuto avere, perché il diritto alla protezione e alla sicurezza dovrebbe essere una priorità in un paese civile, ha una sorella da piangere.

Dietro alla frase del suo assassino, “mi ha lasciato, ho perso la testa”, c’è un ragazzo come tanti, non un mostro né un pazzo da poco uscito da un istituto. E c’è una terribile, tragica e intollerabile ennesima sconfitta. La sconfitta della protezione doverosa e dovuta a chi chiede aiuto, la sconfitta dell’educazione ai sentimenti e al rispetto.

Molti e complessi sono i fattori che concorrono a muovere la mano di un femminicida, e uno di questi è la non sufficiente messa al bando, da parte degli adulti e delle agenzie educative (famiglia, scuola, media, opinion leader) della logica della legittimità da parte maschile del possesso e della supremazia del proprio bisogno su quello della compagna.

Una ragazzina, durante un dibattito su questi temi, diceva con candore di essere cresciuta vedendo alla tv, e sui giornali, corpi di giovani donne, (quindi per traslato anche il suo corpo), perennemente utilizzato per vendere, e di non avere altro modello di riferimento. Seni, cosce, glutei, pezzi di carne di donna in mostra per vendere cose.

Si può rispettare una cosa? Che storia ci racconta, e che realtà partorisce la legittimazione della mercificazione del corpo femminile, laddove evidentemente autorizza il diritto maschile a pretendere che una donna in carne e ossa debba sempre dire sì, e mai possa sottrarsi, mai possa esercitare soggettività, mai si rifiuti?

Senza nulla togliere alla tremenda (ir)responsabilità di quel ragazzo assassino, non dobbiamo forse domandarci tutti e tutte noi, adulti: cosa ha (anche) contribuito ad armare la sua mano violenta?

 

da Il Fatto Quotidiano - Palermo

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