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di William Domenichini

 27 milioni di cittadini italiani, la maggioranza assoluta, hanno votato un referendum per sottrarre la gestione dei servizi, acqua in primis, alle grinfie di privati, multinazionali, fondi d’investimento e altri “vampiri” più o meno neoliberisti. Neanche un mese dopo quel voto, tra deficit e debiti pubblici, la speculazione finanziaria internazionale mise in ginocchio la gracile economia italiana e sotto scacco Eurolandia1. Si passò dall’arlecchinesco governo Berlusconi, che in pochi mesi varava manovre bis da 54 miliardi di euro2 sotto dettatura della Bce3, al sobrio governo tripartisan bocconian/style, per fare il compito direttamente, senza dettati. Il filo conduttore rimane incostituzionalmente definito sia sotto il profilo del lavoro4, che diventa soggetto a deroga privata al vaglio delle necessità dei mercati, sia sotto l’ondata di privatizzazioni5 che tentano di vanificare l’esito referendario6. Nelle turbolenze speculative che travolgono economie comatose sull’orlo del default, tra rating, indici e spread, tra acronimi attorcigliati a cifre vomitate da un unico tubo catodico, “con l’Euribor c’è chi sta impazzendo7 in una sorta di sabba finanziar-mediatico.

Sindacati più o meno labilmente indignati invocano il fantasma della crescita come se fosse un obbligo contabile, senza mettere in dubbio il modello fallimentare, condiviso con una classe politica che finge contrapposizioni, convergendo sulla necessità di tagliare, spremere ed attendere le reazioni dei mercati, in nome di una coesione che, paradossalmente, si invoca tra chi subisce gli effetti della crisi e chi l’ha causata. Fasce tricolori scendono in piazza denunciando il rischio che ai comuni squattrinati rimangano solo funzioni anagrafiche mentre i loro soci privati, padroni di acqua o costruttori di inceneritori, piangono lacrime di coccodrillo dopo aver venduto la pelle dell’orso e gli uragani speculativi sgretolano pacchetti azionari in mano pubblica: Bologna, comune azionista di Hera8, se vendesse oggi le proprie quote incasserebbe poco meno di 200 milioni di euro, quando a fine 2007 ne valevano circa 5509!

 

Magia nera? Certamente se Merola piange, Doria, Pisapia, Alemanno o Fassino10 non ridono: l’estate passata scioglie quasi un quarto dei titoli della lombarda A2A11, squaglia il 30% della romana Acea12, dissolve circa il 40% del gigante Iren13 e l’odore di zolfo è ancora più intenso di qualche mese fa (Rileggete “Multiutility, multibusiness…“). Le decapitazioni del prof. Woland14 toccano tanto ai manager quanto a quegli economisti che, con dire più o meno keynesiano, vaticinano accademismi da salotto televisivo, ammonendo che i numeri son numeri e che i sacrifici vanno fatti, così com’è stato in Argentina, com’è in Grecia o come sarà, ma guai parlare di Islanda15, Bolivia, o di altri mondi, seppur possibili. Tra imbrogli alla Goldman Sachs16, di cui vantiamo eminenti esponenti al governo, ed apocalissi alla Lehman Brothers17, la libera volpe è rimasta sola nel libero pollaio ad azzannare i resti fumanti delle carcasse e le exit-strategy, in questa crisi costituente vengono affidate a ministri tecnici che si formano proprio con le ricette del fallimento, sostenuti da destra a pseudosinistra da primarie, al netto delle sfumature: aiuti pubblici a banche intossicate con debiti sovrani, riduzione drastica di spesa pubblica, tagli a bilanci sociali a cui corrisponde aumento di disoccupati e rarefazione di servizi proporzionale alla loro privatizzazione. Cose di un altro mondo, cose da demoni.

 

Il diavolo farà anche le pentole, ma spesso si dimentica i coperchi. Il consiglio comunale di Forlì viene chiamato ad esprimersi sulla fusione tra l’emiliana Hera e l’omologa veneto-giuliana Acegas-Aps. Chissà se qualche accolito di Woland si sia impossessato del sindaco che, nonostante la linea del partito (Pd), si oppone ad un’operazione che acuirà la “debolezza strutturale della ‘politica’ sulle scelte della multiutility” alimentando la difficoltà “di ri-orientare le politiche aziendali, per portarle là dove vogliono i cittadini, elettori e insieme consumatori” e Forlì, che incentiva il porta a porta, si scontra con l’azienda che punta sull’incenerimento dei rifiuti18. Lo zampino luciferino evidentemente non si ferma a Forlì, ma continua a burlarsi di Politburo e Cda strappando il no alla fusione anche i Comuni di Rimini, Cesenatico (Fc), Porretta Terme (Bo), Monghidoro (Bo), Sassuolo (Mo), Rocca San Casciano (Fc), Civitella di Romagna (Fc), Premilcuore (Fc), Predappio (Fc), Portico (Fc) e San Benedetto (Bo).

Dall’altro lato dell’Emilia cambiano gli attori ma l’odore è il medesimo, di zolfo. Too big to fail: se la montagna scricchiola va resa ancora più mastodontica e l’ombra pantagruelica della fusione tra l’emilian-torines-genovese Iren e la lombarda A2A si fa minacciosa in chiave di costituzione di una grande multiutility del Nord, al netto della “guerriglia” dei comitati in difesa dell’acqua. Scendiamo di latitudine e nel Lazio troviamo 30mila demoni, tutti con diritti di cittadinanza, che firmano per una legge d’iniziativa popolare regionale su “Tutela, governo e gestione pubblica delle acque19, ed alcune amministrazioni locali deliberano il proprio sostegno all’iniziativa. Chissà se Woland si è impossessato anche della fascia tricolore di Corchiano (Vt), tant’è che il comune “virtuoso” coinvolge altre 26 amministrazioni, in rappresentanza di oltre 220mila elettori, per sostenere la possibilità di indire un referendum propositivo sul testo proposto, qualora la Regione non legiferi. Nel mentre Woland si è anche travestito da Batman, il consiglio regionale si è sciolto20, e con tutta probabilità i laziali andranno a referendum. The devil makes work for idle hands.

Liguria, La Spezia, Acam. Quella che fu l’Azienda Consortile Acqua e Metano, oggi è una Holding Spa pubblica, con soci i comuni spezzini: una scatola che contiene Ambiente, Acque, Gas (con quote pubbliche solo per il 51%, il resto è in mano della privata ItalGas SpA), Clienti, InTeGra e Centrogas, un presidio produttivo fondamentale per occupazione, prospettive economiche del territorio e per i servizi essenziali che eroga. L’enorme deficit aziendale porta a cliché risolutivi: tagli, privatizzazioni, cessioni. L’operazione più succosa, la fusione per incorporazione con Hera, salta rovinando a qualcuno uno dei giorni più belli della vita21, ma i problemi, al netto dei matrimoni falliti, sono sempre i soliti e se dal punto di vista aziendale si manifestano nell’enorme indebitamento, da un punto di vista semantico si traducono nel significato di responsabilità. Per salvare l’azienda dal baratro non servirà riproporre la storia della sua gestione, decisamente poco oculata (se vogliamo limitarci agli eufemismi) tra clientelismi e vani sogni di grandezze, ma far luce sull’ultimo atto della saga, il Piano di Riassetto.

Il bilancio 2011 certifica il significativo miglioramento dei profili di redditività – produzione aziendale e nelle ipotesi di riassetto si afferma che “il risultato netto è negativamente influenzato dalla gestione straordinaria per l’effetto di svalutazioni di rettifiche di valori di attività”, tuttavia si chiede di vendere l’azienda del gas. Responsabilità non significa vendere i settori più redditizi impoverendo la società sotto il profilo patrimoniale e finanziario, in un film peraltro già visto quando venne ceduto il 49% del gas nel 2003 o quando si contrattò il project financing per coprire gli “investimenti” della società idrica. Come allora si disse ”non si può fare altrimenti”, anche oggi il primo cittadino spezzino, che a differenza del suo parigrado forlivese è decisamente fedele alla linea, propone una versione amministrativa della Hobson’s choice: “chiedetemi tutto ma non di non vendere”. Casomai non bastasse, nel piatto del mercato c’è anche il 49% di Acam Ambiente, ma che cosa c’è di responsabile anche in questa cessione? Nulla, se si pensa che nell’ipotesi di riassetto si assume l’obbiettivo di raggiungere il 65% di raccolta differenziata nel 201722, nulla se si pensa di riaprire una discarica già satura (Vallescura) fino alla fine dell’anno per poi attendere che qualche privato risolva la questione, sulle tariffe e sulla pelle dei cittadini.

 

Riavvolgiamo il nastro. Acam è pubblica, tradotto i proprietari sono i cittadini spezzini, ma alcuni sindaci, delegati a rappresentarli, stipulano contratti con l’azienda, di cui rappresentano la proprietà, non adeguati ai servizi erogati, ossia tali da essere in perdita per l’azienda stessa. Nell’accordo sul riassetto, e quindi nella prospettiva di cessione del 49% dei servizi ambientali ad un privato, i primi cittadini si impegnano a “riadeguare i contratti di servizio secondo criteri di sostenibilità economica e finanziaria”, tradotto, finché era in mani pubbliche si gestivano i servizi anche in perdita, se la vendiamo paghiamo il dovuto. Curioso concetto di res pubblica, tant’è che i contratti di servizio si rifanno sulle tariffe: sarà un caso che su 32 comuni spezzini solo 3 sono a TIA, mentre gli altri sono ancora a TARSU? Una domanda non banale se si pensa che la TIA deve coprire l’intero costo del servizio, mentre la TARSU no, consentendo un margine di bilancio che la tariffa non permette e quindi un margine nel contratto di servizio stesso. Woland ci rimette lo zampino e prevede un’adeguamento tariffario per quei sindaci maghi della contabilità, ma ancora una volta riemerge il concetto di responsabilità: questi sindaci dovrebbe dire, prima della prossima tornata elettorale, quanto ammonta il debito dei loro comuni per aver stipulato contratti di servizio in perdita per l’azienda, e quantomeno iniziare a rinunciare a qualche “evento” contribuendo al risanamento del debito su cui Acam, ed i suoi lavoratori, incombono. Più in generale sembra un film già visto che fa pensare ad un disegno ben preciso: finché l’oggetto del contendere è di tutti, allora lo lasciamo andare in malora.

 

Vi ricordate i 27 milioni di “Si” con cui abbiamo iniziato la storia? 100mila di loro sono spezzini che twitteranno #oppureirresponsabile? Nel Piano di Riassetto -  (pdf - 552.89 kB), badate di riassetto (cercasi Piano Industriale disperatamente!), non si fa chiarezza sulla pubblicità dell’acqua, anzi, si prospetta l’aumento della tariffa idrica nonostante la diminuzione dei consumi. Qual’è la responsabilità di chi pensa all’acqua come mera voce di bilancio? Forse si perde nell’ignoto come si è persa la ragione e la logica responsabile di chi ha contratto derivati facendo perdere ad Acam qualcosa come 11 milioni di euro23, e nonostante ciò c’è chi ci sta provando a venirne fuori: le procure di Milano e di Acqui Terme, dove i giudici hanno rinviato a giudizio un alto funzionario di UniCredit per il reato di truffa aggravata nei confronti del comune di Acqui Terme per i sei derivati venduti tra il 2004 e il 200624.

Possibile che la responsabilità diventi irresponsabilità e le proposte di salvataggio di un’azienda pubblica finiscano nel ormai desueto e logoro socializzare le perdite e privatizzare i ricavi? Destino cinico e baro quello della cosa pubblica in epoca montiana, dove un percorso assunto come unico ed ineludibile e che conduce verso il baratro è definibile responsabilmente, mentre dare a Cesare quel che è di Cesare(o ad Acam quel che è di Acam) un’evidente irresponsabilità. Con ovvia conseguenza il pensiero unico corrisponde all’appiattimento di quasi tutte le forze politiche locali, eccezion fatta per qualche consigliera comunale25, in fondo Woland è un ottimista se crede di poter peggiorare gli uomini.

 

il baratro è definibile responsabilmente, mentre dare a Cesare quel che è di Cesare(o ad Acam quel che è di Acam) un’evidente irresponsabilità. Con ovvia conseguenza il pensiero unico corrisponde all’appiattimento di quasi tutte le forze politiche locali, eccezion fatta per qualche consigliera comunale25, in fondo Woland è un ottimista se crede di poter peggiorare gli uomini.

 

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