Relazione introduttiva di Ezio Locatelli, responsabile organizzazione nazionale Prc

Teniamo questo incontro in condizioni precarie e per questo vi ringrazio doppiamente di essere presenti. Il primo pensiero va alle morti del nubifragio di questa notte che ha colpito in particolare la provincia di Livorno. Anche questa volta ci diranno di morti causate da eventi straordinari. E invece no. Ancora una volta siamo in presenza di tragedie che hanno, come causa prima, il dissesto e l’incuria del territorio contro cui va condotta – questo uno degli impegni di prima grandezza – una battaglia politica e di movimento.

dscf4298Come abbiamo visto in questi giorni, dentro la festa, oltre ai momenti di confronto rivolti all’esterno abbiamo tenuto dei momenti di discussione più centrati sui nostri compiti, sulla riorganizzazione dei diversi settori di intervento politico. Proviamo questa mattina a chiudere questa tornata di incontri con una riflessione a tutto campo che riguarda l’insieme delle nostre forze. Ringraziamo Lidia Menapace, Loris Caruso, Ciccio Auletta, Roberta Fantozzi per i contributi che daranno nel corso di questa discussione che sarà conclusa da Maurizio Acerbo.

Per entrare subito nel vivo qualche battuta sullo stato del nostro partito. A me sembra che si possa dire, prima volta da un po’ di anni a questa parte, di alcuni segnali di ripresa di fiducia. Nulla di eclatante ma l’andamento positivo del recente Congresso Nazionale, una certa ripresa di attivismo politico, le molte e partecipate Feste in Rosso, così come l’aumento significativo delle sottoscrizioni del 2 per mille sono la riprova di alcuni segnali favorevoli. Penso che compito nostro, innanzitutto, sia quello di andare ad una generalizzazione di questi segnali, di farlo sulla base non di un generico afflato volontaristico ma di una precisa valutazione politica che sottopongo come primo elemento di riflessione. A me pare che la fase che stiamo vivendo sia una fase di rimessa in discussione del quadro generale che ha dominato negli ultimi tre decenni e, insieme a ciò, di rimessa in movimento di una parte grande società.

Detto in altre parole, penso che l’attuale periodo storico non sia più solo ed elusivamente quello di cui parlano Pierre Dardot e Cristina Laval della razionalità indiscussa del neoliberismo, del dominio interiorizzato, dell’acquiescenza di massa. Il periodo del pensiero unico capace, come ebbe a dire a suo tempo Margaret Thacher, di “cambiare il cuore e l’anima delle persone”. Ieri, parlando delle mobilitazioni antiG7 cui andremo a partecipare, Monica Di Sisto diceva.”se noi pensassimo che quelli – i poteri forti – stanno vincendo sbaglieremmo tutto”. Sono molto d’accordo. Penso che oggi si possa parlare di un’inversione di “senso comune” di massa. Sostanzialmente per due ragioni. La prima: una crisi che, con la sua continua opera di demolizione di diritti sociali e del lavoro, ha messo la parola fine, definitivamente, alle promesse di più benessere e più libertà per tutti. Sia detto, alla faccia delle ottimistiche uscite di Paolo Gentiloni che parla di una “crisi ormai alle spalle” guardandosi bene dal dire che l’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto tasso di disoccupazione e di diseguaglianze sociali. Una realtà dirompente come mai era accaduto, destinata a incidere nelle coscienze, a cambiare aspettative. Si tratta di dinamiche radicate nella società che i teatrini della politica non possono occultare così facilmente. Dinamiche, per riprendere una definizione lapidaria di Ulrik Bech di qualche anno fa, che hanno portato “alla fine del credo in un sistema”.

Seconda discontinuità emersa chiarissimamente in occasione di tutte le ultime tornate elettorali: il crollo del senso di appartenenza a un quadro politico e di rappresentanza che, riguarda tutte le forze. Penso che abbiamo accantonato troppo in fretta quanto successo il 4 dicembre scorso come se si trattasse di un fatto politico contingente. Anche se quel risultato non ha prodotto alcun sovvertimento dei rapporti di forza – tutte le politiche antisociali rimangono drammaticamente operanti – quel risultato segna con chiarezza la fine del monopolio del controllo della classe politica sulla “sfera pubblica”. Volendo vi è anche un precedente: il referendum del giugno 2011 in difesa dell’acqua pubblica. Questi fatti, così come il crescente astensionismo al voto, testimoniano di una secessione di gran parte dell’elettorato suscettibile di sviluppi imprevedibili.

Dico queste cose senza voler fare in alcun modo professione di ottimismo ingenuo. Per dire dell’ambivalenza del momento è utile rifarsi a un articolo di Nancy Fraser, femminista americana, scritto all’indomani dell’elezione di Trump: “Questa elezione rappresenta una delle serie di drammatiche rivolte politiche che insieme segnalano un crollo dell’egemonia neoliberista. Queste rivolte comprendono, tra le altre, il voto per la Brexit nel Regno Unito, il rifiuto delle riforme di Renzi in Italia, la campagna di Bernie Sanders per la nomination del Partito democratico negli Stati Uniti e il sostegno crescente per il Fronte Nazionale in Francia. Anche se differiscono per ideologia e obiettivi, questi ammutinamenti elettorali condividono un bersaglio comune: sono tutti rifiuti della globalizzazione delle multinazionali, del neoliberismo e delle istituzioni politiche che li hanno promossi”. Detto ciò la Fraser dice di questa situazione: “Quello che abbiamo di fronte è un interregno, una situazione aperta e instabile in cui i cuori e le menti sono in palio”. In questo interregno, per usare le parole di Samir Amin, “tutto è possibile, il meglio e il peggio. I giochi sono aperti. Le lotte politiche e sociali, con i loro successi e insuccessi, determineranno quello che sarà il futuro prossimo”.

Se così stanno le cose c’è da trarre una prima conclusione che riguarda il nostro modo di pensare e agire. Quello che non possiamo fare è rimanere bloccati su noi stessi con l’eredità di una sconfitta. Lo dico perché ancora troppe discussioni sono concentrate sul lato della crisi della sinistra, dei mancati risultati, dell’esaurimento degli spazi di alternativa. Non che non ci siano problemi, difficoltà. Ma è l’approccio che è sbagliato, retrodatato, incapace di vedere le potenzialità per l’avvio di una nuova fase di iniziativa e ricostruzione politica. Per questo penso che uno dei problemi che abbiamo è di fare in modo che nella testa e nella pratica delle compagne e dei compagni viva questa direzione di ricerca, di una ricerca che sia nel senso di una ritrovata capacità di agire, di individuare i nuovi fermenti, i nuovi conflitti, di vedere lo spirito di scissione che si annida nelle molte pieghe e fratture della società.

Abbiamo presente l’obiezione mossa da non pochi compagni e compagne: il fatto di non essere più in presenza di culture politiche strutturate, di dover fare i conti con un’ondata di depoliticizzazione, col fenomeno della dispersione sociale. Una situazione permeabile a diverse narrazioni, più o meno estranee alla tradizionale contrapposizione destra sinistra, più o meno contraddistinte da una forte propensione alla manipolazione del disagio, della protesta che c’è. Esempio macroscopico di manipolazione: l’identificazione del problema migranti con il problema della sicurezza sociale e nazionale. Scriveva Bauman un anno fa: la costruzione di uno stato di emergenza, da nemico alle porte, da caccia alle streghe è una comoda “valvola di sfogo”, un “trucco da prestigiatori“. Trucco che consiste nel dirottare l’ansia dei problemi che i governi non sanno o non vogliono risolvere ad altri problemi, cui gli stessi governi possono quotidianamente, su migliaia di schermi, mostrarsi intenti a lavorare alacremente”.

Detto ciò, occorre prendere atto: il diffuso senso di insicurezza quotidiana è una realtà di fatto. Il problema è come riusciamo a parlare a questa nuova realtà che è in sommovimento e al tempo stesso pienamente coinvolta nella crisi della politica. Come riusciamo a produrre una politicizzazione della fratture sociali per come si manifestano, anche in forme prepolitiche, contrapponendo l’alto e il basso, l’elite e il popolo, il “noi” e gli “altri”. In definitiva come riusciamo a rendere manifesta la contrapposizione tra destra e sinistra, tra capitale e lavoro, tra la logica della competizione e quella della solidarietà. In assenza di questa contrapposizione i soggetti della protesta rischiano l’irrilevanza, non hanno la possibilità di incidere sul sistema di ingiustizia e di disuguaglianza. Non ci sono risposte semplici, a portata di mano. Esistono solo le ragioni di una ricerca, di un lavoro politico. Ma una cosa mi sembra necessario dire: l’urgenza di riportare al centro del nostro impegno il tema del conflitto, delle pratiche sociali critiche, della costruzione di un movimento antagonista come terreno prioritario rispetto ad altri terreni.

Un tema non nuovo ma mai affrontato fino in fondo. Richiamo – mi sembra molto significativa – una riflessione che intercorse tra Ingrao e Trentin, nel pieno di una sconfitta del movimento operaio e della sinistra oltre vent’anni fa a partire da un interrogativo: “dove sta il nodo irrisolto, il punto cruciale che ha portato non solo al crollo dell’Urss ma più largamente alla sconfitta del movimento operaio; dov’è l’errore strategico che ha condotto il comunismo allo scacco?” La risposta data mantiene una sua forte attualità. Nella sinistra c’è stata una lettura molto superficiale, una lettura statalista del processo di liberazione sociale. Testualmente: “la sinistra ha spostato la rivoluzione sociale dal cuore della società civile, ovvero dal conflitto nel luogo di produzione, alla conquista del potere politico statale”.

Penso che la questione di fondo sia proprio questa. Nell’illusione di affrontare una crisi sociale e politica complessiva, attraverso i meccanismi di un cambiamento istituzionale, la sinistra nel corso degli anni ha finito per diventare una sinistra senza società. Nel dire ciò bisogna anche evitare di passare da un eccesso all’altro, il pensare di separare l’azione sociale dall’azione politica. Per fare un esempio. Proprio questa mattina, a Torino, si terranno contemporaneamente due importanti assemblee in due sedi separate. L’una con Tomaso Montanari e, con uno spostamento deciso all’ultimo momento su spinta dei centri sociali, l’assemblea nazionale contro il G 7 di fine mese. Un errore che dà la rappresentazione plastica di due mondi che stentano a riconoscersi. Un errore non vedere che una delle cause della passività delle masse è rappresentata proprio dalla forza della sfera politica, dall’azione disgregante della rappresentanza. Dunque non si tratta di rinunciare – avremo una comunicazione a tal proposito – a una presenza nelle istituzioni, una presenza non fine a se stessa, ma che mantenga fermo il punto di vista del movimento reale, che sia utilizzata come leva per una ripresa di autodeterminazione e opposizione sociale. Il problema è un altro, è il riposizionamento della centralità del nostro impegno politico: più impegno nel portare avanti il piano di un programma sociale.

Questa mattina, tra le comunicazioni, è prevista la presentazione di alcune linee di questo programma. Dico subito che non basta avere un bel programma. Per riguadagnare credibilità dobbiamo avere un programma che non diventi un discorso ma che viva, situazione per situazione, in rivendicazioni, attività pratiche, luoghi di aggregazione. Esistono in tal senso esperienze significative a livello di territori: sportelli sociali, centri antisfratto, circoli ricreativi, reti di mutualismo e solidarietà, gruppi di acquisto solidali e quant’altro sia funzionale a forme di resistenza, di autorganizzazione sociale, di partecipazione conflittuale- Vanno prese a riferimento ed estese, facendo delle nostre sedi non solo dei luoghi di discussione e organizzazione politica ma dei centri di aggregazione e di egemonia con particolare riguardo alle istanze degli strati sociali meno garantiti. Qualsiasi operazione di rigenerazione politica, che non voglia lasciare tutto in mano agli imprenditori della paura e del rancore, passa da qui, deve stare sul terreno dei diritti, della casa, del lavoro, del diritto allo studio, alla sanità, della critica vissuta a ogni forma di sfruttamento, ingiustizia. E’ un’operazione che deve avere un chiaro segno sociale.

E’ altrettanto chiaro che nel fare questo dobbiamo misurarci con le forze che sono in campo. Parto da una constatazione. Oggi esiste una molteplicità di movimenti, di lotte di resistenza e di protesta che testimonia di una pluralità di soggetti a vocazione antisistema. Ma questa pluralità che è espressione di una forza potenzialmente invincibile è allo stesso tempo, per la sua dispersione, la manifestazione di una debolezza. Il tema dunque, per usare ancora un’espressione di Samir Amin, è quello della “costruzione, nella diversità, della convergenza di forze”, della costruzione di “blocchi egemonici alternativi”. Ciò che va fatto sia a livello di movimento che politico. Con un’unica discriminante: l’antiliberismo, ma potremmo anche aggiungere, in forma più estensiva, la volontà di agire nella costituzione materiale del nostro Paese un rapporto di coerenza con i principi della carta costituzionale: lavoro contro sfruttamento, eguaglianza contro diseguaglianza, pace contro guerra, democrazia e antifascismo contro le nuove forme del comando oligarchico. Dal che ne traiamo la necessità di una partecipazione attiva all’operazione “Brancaccio” di costruzione di una larga coalizione sociale e di sinistra alternativa al Pd e al centrosinistra. Partecipazione nella chiarezza. Come detto in più occasioni non siamo interessati all’operazione di ritorno a un centrosinistra ulivista messa in campo da Pisapia, Bersani e compagnia varia. Operazione di galleggiamento che non coglie la crisi di legittimità e di rappresentanza di un sistema declinante.

Infine il partito, il nostro partito. Per tanto tempo ci siamo sentiti ripetere che non aveva più senso l’esistenza di un partito comunista. Al contrario questo per noi è un punto irrinunciabile non per un fatto di ostinazione, tantomeno per nostalgia ma per dignità di un modo di abitare il mondo contemporaneo, l’indisponibilità ad essere cittadini coatti di un mondo attraversato da ingiustizie, sofferenze, sfruttamento, guerre, pulsioni di autodistruzione. Per questo, insieme a una maggiore radicamento del partito nei luoghi sociali, materiali – i luoghi di lavoro, la scuola, i quartieri -, insieme a un impegno di unità e di apertura con le forze del cambiamento, impegno maggiore deve esserci nella ricostruzione delle basi di forza di questo nostro partito a cominciare dalla cura del tesseramento. Ricostruzione che deve andare di pari passo ad una “innovazione del modello di partito”, di “un partito” – come in più occasioni ho avuto modo di dire – “che non può pensare di vivere in forma omologa ai processi istituzionali con le risorse che questi processi garantiscono in termini di finanziamento, di visibilità mediatica”. Noi abbiamo smesso da molto tempo di pensare di vivere in questi termini. Da tempo diciamo della necessità di una “nuova strumentazione e di un nuovo agire politico più centrato su forme di autorganizzazione, di autofinanziamento, di autoproduzione di informazione, forme che devono trovare, nelle spinte reali della società e nell’attività politica, l’alimento e le risorse per strutturarsi”. Passi in avanti sono stati fatti ma il più deve essere ancora fatto, in specie in alcuni ambiti. Ieri si diceva del nostro partito come di una comunità straordinaria, generosa ma che non ha strumenti adeguati di comunicazione, nemmeno di connessione della rete degli iscritti, se si esclude il bollettino “dire, fare Rifondazione”

Chiudo con due battute: la prima riguarda il titolo dato a questa festa: “c’è bisogno di rivoluzione”. Abbiamo usato volutamente questo termine convinti come siamo che le degenerazioni, i fallimenti, i crolli del passato non sono scaturiti dal fatto che furono tentate cose impossibili ma, al contrario, dalla rinuncia a tentare l’impossibile. Cosa che noi non abbiamo fatto, certo, diventando in questi anni di sconfitta la faccia marginale, eretica della politica moderna. Oggi, col venir meno del credo di un sistema, ho cercato di dire che torniamo a vivere un momento di possibilità. Tornano in mente le parole di Pietro Ingrao di qualche anno fa, parole non solo belle e utopiche ma realistiche: ”in ogni modo il cielo di piombo dell’ultimo decennio si sta rompendo. Partorirà nuove luci, spalancherà nuovi sentieri che adesso non sappiamo del tutto intravedere”. Condivido queste parole. L’importante è che noi si faccia la nostra parte. Come diceva Marx: “la storia non fa niente”. Quello che conta sono gli uomini e le donne che agiscono nelle condizioni date per crearsi un avvenire con la propria azione concreta. Sta a ognuna e ognuno di noi consentire che un nuovo senso della possibilità e del cambiamento si faccia strada.

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