ambiente19di Salvatore Romeo -

"Compagni, parliamo di rapporti di produzione!. Con questo celebre appello Bertold Brecht concludeva il suo intervento al Congresso degli scrittori antifascisti, nel 1935, in uno dei momenti più drammatici della storia d’Europa.

Ed è intorno a quella questione che voglio soffermarmi, perché la ritengo cruciale rispetto ai temi che stiamo affrontando, ma troppo poco indagata anche al nostro interno.

Partiamo dall’Ilva. Abbiamo assistito pochi mesi fa all’acquisizione del principale operatore siderurgico italiano, una delle più importanti imprese industriali italiane ed europee, da parte del più grande produttore d’acciaio del mondo, ArcelorMittal.

Si tratta di un ulteriore passo avanti nella direzione della centralizzazione dei capitali in un settore già caratterizzato da una struttura fortemente oligopolistica, per cui pochi soggetti si spartiscono il mercato mondiale.

La centralizzazione dei capitali è una tendenza di fondo dell’economia capitalista, come già Karl Marx aveva fatto notare e come oggi studiosi di ispirazione marxista ribadiscono, portando a supporto delle loro tesi robuste evidenze empiriche. La centralizzazione è la risposta organica che il capitale dà nei momenti di crisi, quando la sproporzione fra la produzione di merci e la capacità di assorbimento delle stesse da parte della società si fa più stridente, e diventa necessario riorganizzare l’offerta attraverso processi di razionalizzazione, selezionando gli operatori più efficienti. “Il pesce grande mangia il pesce piccolo”, per usare la metafora richiamata di recente da Emiliano Brancaccio: è questo che succede. L’impresa meno competitiva, che fa più fatica a stare sul mercato, viene inghiottita dalla concorrente più attrezzata, che la ingloba nella sua organizzazione del lavoro decidendo la capacità produttiva da mantenere e quella da eliminare.

Nella siderurgia europea abbiamo assistito negli ultimi trent’anni a poderosi processi di centralizzazione. I compagni e le compagne francesi, spagnoli, belgi possono raccontarci come è nata Arcelor, e poi com’è stata acquisita da Mittal. Gli inglesi e gli olandesi potrebbero parlarci di Corus, poi acquistata da Tata Steel. I tedeschi hanno ben presente il caso di ThyssenKrupp. Ognuno di questi processi ha portato a chiusure di stabilimenti, riduzione di manodopera, ridislocazione di capacità produttiva all’interno delcontinente. Ogni organizzazione politica della Sinistra Europea, ogni forza sindacale, conserva nella sua memoria recente le battaglie – quasi sempre perdenti – contro questi progetti di ristrutturazione.

Da queste sconfitte dovremmo essere in grado di trarre una lezione. Veniamo quindi a una questione a cui non possiamo sottrarci. La principale conseguenza politica della centralizzazione dei capitali è lo spostamento del nucleo dell’impresa su una dimensione sovranazionale: in questo modo il capitale modifica a proprio vantaggio i rapporti con gli Stati nazionali, con le comunità locali, con le organizzazioni dei lavoratori – che sono ancora essenzialmente strutturate su base nazionale.

Questo fenomeno produce effetti particolarmente rilevanti proprio nell’Unione Europea, dove a un mercato comune ormai consolidato – che consente alle imprese piena libertà di movimento da un paese all’altro – fa riscontro un potere politico che volutamente rifiuta di esercitare qualsiasi interferenza nei confronti dei processi di accumulazione.

Questa circostanza, che rappresenta uno dei vincoli più antichi della costruzione comunitaria, risalente proprio alla crisi della siderurgia degli anni ’80, ha spinto molti di noi – compreso il mio partito – a brandire in questi anni la parola d’ordine delle “nazionalizzazioni”, cioè dell’intervento da parte dei singoli stati. L’inefficacia di questa proposta deve indurci a una seria riflessione autocritica.

In primo luogo, quella proposta ha avuto come effetto indesiderato – ma inevitabile – il persistere della frammentazione delle lotte. Le compagne e i compagni francesi si sono battuti perché il loro governo acquisisse il controllo di alcuni stabilimenti di ArcelorMittal, mentre le compagne e i compagni italiani hanno cercato di far passare quella parola d’ordine nei confronti del governo italiano in relazione alla crisi Ilva. Questi movimenti non hanno comunicato; ad entrambi è stato risposto che non era possibilerealizzare quell’obiettivo per via della legislazione comunitaria sugli “aiuti di Stato”. Si è replicato, in diverse occasioni, rivendicando la sovranità economica dei singoli Stati, ma in questo modo ciascuno di noi si è recluso ancora di più all’interno dei propri confini nazionali, mostrando l’incapacità della Sinistra europea tutta di immaginare e costruire un movimento in grado di modificare alle fondamenta la struttura dell’Unione. Abbiamo lasciato che fosse Sergio Marchionne a proporre un piano europeo per la gestione della crisi dell’auto – proposta rispedita al mittente dai produttori tedeschi. Questo è un elemento decisivo della nostra attuale debolezza: alla retorica dell’“altra Europa possibile” non siamo stati in grado di far seguire campagne di mobilitazione internazionali su concrete proposte di trasformazione dell’UE.

La questione dunque è: come confrontarci con i processi di centralizzazione in atto? E’ un problema che dobbiamo affrontare con urgenza perché nel frattempo va prendendo forma un nazionalismo economico che non può lasciarci indifferenti. Oggi la destra, dopo aver cantato per trent’anni le lodi del liberomercato, sembra volerci strappare la parola d’ordine dell’intervento pubblico – si veda la posizione del cosiddetto “governo del cambiamento” su Autostrade, su Alitalia o su Carige. Si tratta, per il momento, quasi solo di propaganda, ma un prossimo inasprimento della crisi potrebbe far tornare prepotentemente d’attualità quel tema. D’altra parte alcuni compagni, attratti feticisticamente dalle formule economiche, sembrano subire il fascino di quelle posizioni. A noi tocca comprenderne il senso concreto. Di fronte a una nuova grande crisi che prospetta, da una parte, un inasprimento della concorrenza – e quindi un’accelerazione dei processi di centralizzazione – e, dall’altra, una segmentazione del mercato mondiale attraverso l’estensione dei dazi, i “pesci piccoli” – cioè i capitali nazionali – trovano nello Stato un appiglio fondamentale a cui aggrapparsi per restare a galla.

In queste circostanze la Sinistra, i comunisti, devono fare attenzione a non cadere nella rete delle ideologie piccolo-borghesi che stanno devastando il nostro campo. Dobbiamo essere in grado di lanciare una proposta all’altezza della sfida. Immaginare una riforma radicale dell’Unione che abbia al centro la capacità degli organi politici – ridefiniti in senso democratico – di controllare e indirizzare i processi di accumulazione e le loro conseguenze economiche, sociali e ambientali. E su questo costruire organizzazione e mobilitazione.

Mi scuso con voi se ho volato troppo alto, ma credo che dovremmo essere tutti consapevoli che senza una prospettiva generale le lotte su scala locale rischiano di scivolare nel vizio del particolarismo. Un rischio che ci espone ad ambiguità ed inconcludenza, e che oggi non possiamo in nessun modo permetterci.

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