di Elena Mazzoni e Francesco Piccardi -
Tanti studiosi del marxismo si sono posti questo interrogativo e hanno analizzato le critiche su temi quali frattura metabolica, sviluppo umano sostenibile, decrescita, crescita demografica e industrialismo, partendo dal presupposto che, tra le questioni più “spinose” del nostro tempo c’è quella ambientale, secondo molti sottovalutata, anche nella visione marxista-leninista, e relegata al ruolo di appendice secondaria della contraddizione tra capitale e lavoro, inoltre spesso il pensiero di Marx, Engels e Lenin è stato accusato di aver trascurato le problematiche ambientali, come dimostrerebbe l’esperienza della ex URSS.
In realtà, mentre noi parliamo di “grande crisi ecologica”, Marx parla “frattura metabolica nel rapporto tra l’uomo e la terra” anche perché l’ecologia come scienza si è sviluppata dopo Marx ed Engels, ed ha le sue radici profonde nella biologia, nella fisica, nella chimica e in generale, nelle scienze naturali che, insieme al capovolgimento della dialettica hegeliana, hanno fornito le basi teorico-scientifiche al pensiero sul “materialismo storico e sul socialismo-comunismo” dei due grandi rivoluzionari.
Il materialismo storico, rispondendo all’atteggiamento riduttivo della natura, considerata dal pensiero borghese-imprenditoriale come una cosa che esiste solo in funzione dell’utile umano, afferma che essa è un dato oggettivo entro il quale avvengono processi di rigenerazione e di evoluzione della materia, organica ed inorganica, indipendenti dall’uomo.
Questi processi esistevano anche prima che l’uomo comparisse sulla terra, anzi l’uomo appartiene alla natura, è il suo prodotto più evoluto
Nel pensiero di Marx appare già una concezione della natura, che l’ecologia tradurrà poi nella distinzione tra “ecosistema naturale” ed “ecosistema antropico”, dove il secondo si espande a spese del primo man mano che i rapporti sociali di produzione e consumo del capitalismo coinvolgono l’intero pianeta.
Naturalmente a Marx, impegnato in una critica demolitrice del capitalismo, fino a prevederne la sostituzione con la costruzione di una nuova società socialista-comunista, la natura interessa principalmente come prodotto del lavoro umano sociale, dove le sue risorse materiali sono utilizzate in maniera innaturale, in quanto ridotte a merci di scambio per un consumismo umano esclusivamente finalizzato al guadagno di una ristretta classe di capitalisti.
Se si legge “Il Capitale” e perfino i “Manoscritti economico-filosofici” del 1844 vediamo che Marx denuncia, in maniera chiara, l’impoverimento e la perdita di fertilità naturale della terra dovute all’uso invasivo dei concimi chimici nelle colture agricole e la crescita di condizioni ambientali patologiche di vita, sia nei luoghi di lavoro che fuori, per la concentrazione della classe operaia e di gran parte della popolazione nelle periferie di grandi centri urbani, invase dai fumi delle fabbriche, da acque fognarie a cielo aperto e da rifiuti maleodoranti.
Negli scritti di Engels è evidente la spregiudicatezza senza limiti dell’uso che il capitalismo fa della natura.
In “Dialettica della natura” scrive:
“Ad ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato”.
In quest’altra frase, anch’essa ripresa dall’opera citata, Engels dice:
“Tutti i modi di produzioni fino ad oggi esistiti si sono sviluppati avendo di mira i risultati più prossimi, più immediati del lavoro. Le ulteriori conseguenze manifestatasi solo in un tempo successivo, operanti solo per graduale accumulazione e ripetizione rimanevano del tutto trascurate.”
In queste citazioni troviamo dunque un’anticipazione sulla necessità di impiegare “i modi di produzione” in maniera compatibile con le leggi della natura, quello che la scienza ecologica tradurrà poi nel concetto di “sviluppo sostenibile”, leggi che vanno studiate, conosciute e rispettate per costruire una società umana capace di avere con la natura rapporti non conflittuali.
Nella Russia sovietica, sotto la guida Lenin, le politiche ambientali hanno avuto una enorme espansione e risultati straordinari.
Lenin, coadiuvato da altri dirigenti comunisti, si dimostrò assai determinato nella necessità di perseguire uno sviluppo economico in sintonia con la conservazione e la salvaguardia delle sue basi naturali ed incentivò e favori, con grande consapevolezza e lungimiranza, gli studi ecologici, il dialogo tra il governo sovietico e gli studiosi ambientalisti, la nascita di un forte movimento conservativo della natura e dell’ambiente storico. Tutto questo sfociò in numerose realizzazioni concrete, grazie anche all’abolizione della proprietà privata della terra, che dava allo Stato dei Soviet la possibilità di gestire, controllare e pianificare l’uso del territorio non in funzione degli interessi di rendita dei proprietari fondiari, ma di tutta la collettività.
A partire dagli anni trenta l’idillio ecologico ed ambientalista, con la pianificazione economica socialista, iniziò a scemare con la frenetica corsa all’industrializzazione pesante dei primi piani quinquennali e la collettivizzazione forzata dell’agricoltura, impressa da Stalin, per superare, in poco tempo, il gap militare coi maggiori paesi del capitalismo occidentale e per garantire un’autosufficienza economica ed alimentare di base all’URSS.
L’URSS ricostruì, ripristinò e superò, in pochi anni, i livelli di industrializzazione e di produttività agricola ante guerra, intraprendendo un’altra corsa contro il tempo per lo sviluppo dell’energia nucleare in grado di stabilire almeno la parità atomica con gli USA.
La competizione a tutto campo, soprattutto fra URSS e USA, che prosegui nei periodi della “guerra fredda” e della “coesistenza pacifica”, portò all’abbandono del rapporto aperto e collaborativo che Lenin aveva saputo istaurare tra marxismo, ecologismo ed ambientalismo.
La politica leninista di eco-sviluppo è stata abbandonata, in quanto i gruppi dirigenti dell’URSS, anche dopo Stalin, hanno deciso di affrontare i problemi del paese derivati dal suo isolamento internazionale e dalla competizione col capitalismo occidentale, con una pianificazione economica burocraticamente centralizzata, fondata su una crescita quantitativa con obbiettivi imposti dall’alto alle realtà locali ignorando i loro caratteri specifici, ambientali e naturali, considerati come “errori della natura” da correggere.
In fondo è dal perpetuarsi della visione borghese dell’uomo come padrone e dominatore della natura, anche in un paese fondamentalmente socialista, che sono derivati, come nell’Occidente capitalista, molti disastri ambientali fra i quali, senza entrare nel merito, cito solo due esempi: la distruzione del lago salato Aral, una volta uno dei più estesi e pescosi del pianeta, situato tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, ridotto ora a due pozze d’acqua inquinate e prive di vita; la grande tragedia nucleare d Chernobyl, che ancora oggi continua a mietere vittime umane.
Guardando al capitalismo dei nostri giorni, dove accanto alla contraddizione tra capitale e lavoro esiste la contraddizione tra capitale e natura, l’esperienza sovietica ci dovrebbe insegnare che con la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e della terra si abolisce la prima contraddizione, ma non detto che con la prima si sciolga automaticamente al sole anche la seconda.
Del resto proprio Marx, Engels, Lenin, Gramsci e altri rivoluzionari e pensatori comunisti, hanno più volte ribadito che col socialismo vengono smantellati i rapporti sociali di produzione e consumo del capitalismo ma non la sua sovrastruttura ideologica, giuridica e culturale e religiosa che continua a sopravvivere, ancora per molto tempo, nelle abitudini e nel cervello delle persone, compresa l’erronea credenza borghese, che sta alla base del capitalismo, sull’uso economicistico, produttivistico ed utilitaristico, senza limiti, della natura da parte dell’uomo.
Il capitalismo è la causa strutturale che ha fatto nascere e crescere, in maniera patologica, tale questione.
Il modello di sviluppo economico-sociale del capitalismo per sopravvivere, se da una parte aumenta lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo rendendo il lavoro flessibile e precario, fino alla disoccupazione, dall’altra cerca sempre di trasformare, senza limiti imposti da leggi fisiche, chimiche, biologiche ed ecologiche, una quantità crescente di materia, ridotta a merce come la forza-lavoro umana, da immettere sul mercato come prodotto finito in grado do assicurare, con la vendita, profitti, rendite ed interessi finanziari ai vari attori del capitalismo.
E’ proprio dalla completa sudditanza della forza-lavoro umana e della natura alle esigenze, senza limiti, di produttività, competitività e redditività dell’impresa privata, sia essa costituita dal singolo capitalista o dalla grande società monopolistica di capitali (nazionale, transnazionale o multinazionale), che sono nate le seguenti patologiche condizioni ambientali generali assai pericolose per la nostra vita e quella del pianeta: l’alterazione del clima terrestre; la riduzione continua della biodiversità vegetale ed animale; la crescita dei livelli dei vari tipi d’inquinamento (aria, acqua, terra, amianto, elettromagnetismo, rumore); tendenze verso l’esaurimento di materiali e risorse naturali importanti; aumento dei rifiuti prodotti che la natura non riesce a metabolizzare; consumo del suolo per il continuo avanzamento della sua cementificazione; il dissesto idrogeologico di vasti territori.
Nel terzo volume del Capitale, Marx presenta quella che, senza dubbio, costituisce la più radicale concezione di sostenibilità mai esposta, affermando che gli individui non sono proprietari della terra, e come ciò valga per tutte le persone in ogni parte del mondo. Dunque, essa è stata loro affidata perché la conservino, o rendano addirittura migliore, per le future generazioni, come dei buoni padri di famiglia. Egli definisce il socialismo come la formazione sociale nella quale i produttori associati regolano razionalmente il proprio ricambio organico con la terra, al fine di promuovere i più autentici bisogni umani, economizzando al contempo il dispendio di energia.
Per tanto, è certamente possibile, sulla base del materialismo storico, sviluppare una concezione rivoluzionaria di “sviluppo umano sostenibile” – tale da essere radicalmente opposta allo “sviluppo sostenibile”, così come concepito dall’economia neoclassica. Sviluppo umano sostenibile, quindi, non va inteso nel senso di crescita economica sostenibile.
Sarebbe indubbiamente un errore fatale, per la sinistra, disarmarsi dal punto di vista intellettuale abbandonando concetti come sostenibilità ed ecologia, nonché, eguaglianza, democrazia e libertà, semplicemente perché l’ideologia dominante se n’è appropriata distorcendoli in vario modo. Noi dobbiamo combattere per delle prospettive che siano autonome.
In realtà per andare verso una soluzione definitiva della questione ambientale occorre liberare la società umana, l’ambiente e la natura dal capitalismo, che va abbattuto, per costruire una nuova società, socialista-comunista, dove la terra e le attività economiche fondamentali siano collettivizzate e gestite da uno Stato che sia completamente nelle mani della classe lavoratrice e dei suoi alleati.
È l’accumulazione capitalistica, non la crescita della popolazione, a rappresentare il principale fattore del mutamento climatico. Sebbene le emissioni di CO2 dovrebbero cessare ovunque nei prossimi decenni , raggiungendo, per esempio, l’obiettivo di zero emissioni entro il 2050, le maggiori riduzioni dovrebbero necessariamente verificarsi nei paesi ricchi, dove il loro livello pro capite è più elevato.
È appena il caso di sottolineare che i paesi ricchi, i quali vantano le più alte emissioni pro capite di CO2, non sono quelli con i più alti tassi di crescita demografica. In effetti, i paesi più poveri e con i più alti tassi di crescita della popolazione sono tendenzialmente quelli con il minore impatto pro capite sul clima.
Occorre però costruire all’interno dell’attuale società un movimento di massa che, insieme all’abolizione della proprietà privata delle attività economiche fondamentali, rivendichi un sistema di produzione e di consumo diverso da quello capitalista. Un sistema fondato da una parte sulla liberazione dell’umanità dai bisogni materiali e dall’altra, su processi produttivi e prodotti ecologicamente innovativi, compatibili coi cicli vitali di riproduzione della materia, che sono da salvaguardare e conservare anche per le future generazioni.
Si tratta insomma di creare, attraverso la ricerca scientifica, “tecnoecologie” produttive dove il lavoro dei “produttori” (così chiamati da Marx chi lavora in una società senza più divisione in classi sociali) sia indirizzato verso un “eco-sviluppo” in cui la crescita dei beni prodotti avvenga in piena armonia col risanamento grado dell’ambiente, l’aumento della sua naturalità e il rinsaldamento dei legami organici tra l’uomo e la natura.
Questo non vuol dire che i comunisti devono snobbare qualsiasi mobilitazione della popolazione tesa ad ottenere, all’interno dell’attuale società, miglioramenti parziali delle condizioni ambientali di vita nei luoghi di lavoro, di studio, nelle città e nei territori, se non si parla di socialismo-comunismo.
Considerata l’emergenza planetaria, l’obiettivo primario del movimento ecologico, al momento, dovrebbe essere una mitigazione del cambiamento climatico, il che non può essere separato da tutta una serie di altre problematiche sociali ed ecologiche.
Nell’antropocene, ci troviamo a dover fronteggiare l’eventualità, laddove la società continuasse a seguire la strada per cui gli affari devono comunque andare avanti, della fine della civilizzazione e, potenzialmente, persino della stessa specie umana. Ma ben prima, centinaia di milioni di persone saranno colpite da crescenti siccità, innalzamento del livello dei mari ed eventi meteorologici estremi di ogni sorta.
Tutto ciò richiede un cambiamento radicale “nell’egemonia politica ed economica”.
L’intera struttura del sistema capitalistico va superata e sostituita da una società basata sull’eguaglianza sostanziale e sulla sostenibilità ecologica.
L’antropocene: l’impatto dell’uomo sull’ambiente.
La protesta ambientalista promossa dalla svedese Greta Thunberg ha testimoniato, venerdì 15 marzo, una mobilitazione di massa di oltre un milione e quattrocento mila persone (studenti e non) in più di 1700 piazze d’Europa. Un movimento trasversale, in grado di coinvolgere partiti, associazioni, cittadini e cittadine di ogni età e professione. Secondo l’IPCC ci restano pochissimi anni, 11 per l’esattezza, per invertire lo stato attuale di cose e ridurre l’impatto disastroso dell’uomo sull’ambiente. Undici anni non sono niente, se messi a confronto con l’età geologica della Terra (4.5 miliardi di anni), e con la comparsa della nostra specie, Homo sapiens, probabilmente 300 mila anni fa. Queste date devono far riflettere. La nostra, pur essendo una specie evolutasi molto di recente, è stata in grado di modificare in poche migliaia di anni l’assetto del Pianeta, portando l’ecosistema ad un punto di non ritorno. L’impatto è stato così grande da indurre la comunità scientifica, da un ventennio circa, a coniare un nuovo termine (antropocene) per designare quel periodo geologico caratterizzato dalle conseguenze irreparabili dell’attività umana. A differenza di tutti gli strati geologici precedenti, quello in cui ha vissuto l’uomo sarà caratterizzato dalla persistenza di sostanze sintetiche e altamente inquinanti: si pensi, ad esempio, alle enormi distese di asfalto, alle isole di plastica in mezzo all’Oceano Atlantico, alle emissioni di CO2 e alla radiottività liberata a partire dal 1945 con le terribili esplosioni e test nucleari, e ai disastri di Chernobyl (1986) e Fukushima (2011). Si potrebbe andare avanti per molto, ma tutto questo è sufficiente per far comprendere la gravità di una situazione in continuo peggioramento. Se consideriamo la questione da una prospettiva storico-evolutiva, ci si accorge di una questione fondamentale: a differenza delle altre specie, l’uomo (Homo sapiens) è riuscito grazie ad un evoluzione culturale molto più rapida di quella biologica a conquistare quasi ogni nicchia ecologica del Pianeta, giungendo sino ai Poli, in poche migliaia di anni. Invadendo nuovi spazi, l’uomo ha anche portato all’estinzione numerose specie endemiche (come ad esempio gran parte di quelle del continente americano negli ultimi cinque secoli). Inoltre la rapidità degli spostamenti, accelerata dal secolo scorso, ha causato che molte specie di un luogo venissero in contatto con altre da aree molto distanti, creando competizione e in molti casi estinzione. Un altro fattore da tenere a mente è la necessaria interrelazione fra gli organismi. La natura è un sistema integrato, per cui se si danneggia un organismo, ne risentono innumerevoli altri da cui e su cui a loro volta dipendevano. Pochi anni fa è stata decretato lo sbiancamento del 30% delle barriere coralline a causa del riscaldamento globale, e ciò implica pesantissime ricadute su flora e fauna. Tutto questo ha portato alcuni studiosi a parlare di una sesta estinzione. La storia naturale della Terra ha visto sin’ora cinque grandi estinzioni di massa, per varie cause, alcune delle quali hanno portato all’estinzione del 98% delle forme di vita (estinzione del Permiano). La sesta però sarebbe tutta particolare: sarebbe infatti la prima volta che un unica specie, la nostra, ha alterato così profondamente l’ecosistema da danneggiarlo in maniera irreversibile: una specie che annienta se stessa.
Abbiamo poco tempo, e dobbiamo utilizzarlo al meglio prima che sia troppo tardi. Bisogna comprendere che senza lo smantellamento del sistema capitalistico non si potrà mai tentare di invertire la rotta in maniera consistente. Seguiamo Greta e il suo esempio, per un mondo migliore.
Elena Mazzoni
Responsabile nazionale ambiente PRC-SE
Francesco Piccardi
GC Circolo di Aprilia LT