Nelle tante riflessioni intorno alle cause della sconfitta elettorale alle elezioni politiche del 2008 abbiamo individuato alcuni errori di fondo compiuti dal nostro partito. Errori di analisi ed errori politici quando abbiamo pensato che l’alternanza potesse aprire la strada all’alternativa; quando abbiamo sottovalutato i rapporti di forza esistenti e ritenuto che i partiti di centro sinistra al governo potessero essere permeabili ai movimenti e alle istanze sociali; quando invece abbiamo sottovalutato la nostra stessa “permeabilità” al potere e alla separatezza istituzionale e non ci siamo accorti che l’attacco alla politica e alla sua casta stava diventando senso comune e stava coinvolgendo anche il nostro elettorato.
E nelle analisi della vittoria di Berlusconi abbiamo spesso sostenuto che la destra aveva vinto non solo politicamente ma - e forse ancora prima – culturalmente. Costruendo una risposta egemonica sul piano valoriale e proponendo un’idea forte di società. Forte perché basata sul quell’individualismo ormai radicato nel paese ma costruito accuratamente e strategicamente negli ultimi trent’anni attraverso una proposta culturale tanto martellante quando apparentemente “innocua”.
Ma qui spesso la nostra analisi si è fermata. Per sottovalutazione, a mio parere. Sottovalutazione dell’importanza immensa della cultura e della conoscenza come strumenti fondamentali per la formazione di una coscienza critica e di analisi della realtà, quindi fattori di democrazia. Sottovalutazione degli effetti a lunga, lunghissima durata che l’offerta televisiva – pubblica e privata – pensata e costruita esclusivamente in base ai parametri di ascolto, cioè di mercato, avrebbe prodotto. Proponendo modelli culturali basati sull’affermazione del primato del soggetto, modelli nei quali la dimensione etica del privato prevale su quella collettiva, arrivando a modificarla.
L’oggi – si legge nell’Ottavo Rapporto sulla comunicazione in Italia del Censis - è il risultato di un processo che parte da lontano, “di un processo di lungo corso che, scorrendo come una profonda corrente carsica sotto la superficie degli eventi, compendia mutamenti strutturali di lunga durata, la metamorfosi di soggetti collettivi, dei modi di sentire e di pensare, del clima sociale e culturale, del vissuto quotidiano individuale”.
Tutto questo abbiamo sottovalutato.
Il “senso comune” di oggi, l’egemonia culturale della destra, il successo individuale sopra ogni cosa, l’altro come nemico, l’oggi come unica realtà possibile, la fine della speranza, sono stati costruiti con un lavoro di anni, cui spesso ha contribuito anche una parte della sinistra. Quando ha sposato il mercato come regolatore e i criteri di efficienza, efficacia ed economicità anche per la produzione culturale o quando – nella smania distruttrice della propria storia - ha fatto propri “valori” come sicurezza, mobilità, precarietà, competitività.
Ma riguarda anche noi, se e quando separiamo i bisogni materiali dai bisogni immateriali. Se e quando nella battaglia più generale per il risarcimento sociale, insieme ai salari, alle pensioni, alla lotta alla precarietà, non inseriamo con forza la conoscenza e la cultura. Se e quando nella costruzione del partito sociale insieme al “pane a 1 euro” non lavoriamo anche per la “cultura a 1 euro”, che non vuol dire ovviamente vendita “a basso costo” di opere o prodotti artistici, ma vuol dire riconoscere la cultura come strumento fondamentale che contribuisce alla formazione dei livelli di coscienza degli individui, che tra le disuguaglianze sociali c’è l’accesso ai saperi e alla conoscenza. E, dunque, riconoscere alla cultura tutto il suo valore sociale e fino in fondo “politico”.
Riguarda anche noi se e quando rischiamo di sottovalutare l’operazione seria e coerente – direi strategica – che questo governo sta portando avanti: privatizzare ciò che non è privatizzabile, cioè il sapere, legando la conoscenza all’impresa e la cultura al mercato.
Una politica che si è concentrata prima sul servizio pubblico radiotelevisivo “privatizzandolo” nei fatti, poi sulla scuola e l’università, oggi con un attacco senza precedenti e quasi senza opposizione politica a tutta la produzione culturale, alla sua autonomia e indipendenza e alla sua libertà. Per questo si tagliano i finanziamenti pubblici, per questo si vuole che l’unico filtro regolatore sia il mercato. Per impedire che sia raccontato il paese reale, in qualunque forma e con qualsiasi mezzo espressivo. Che siano raccontati i soggetti sociali concreti, la critica al tempo attuale. Riducendo da un lato il pluralismo dell’offerta culturale e dall’altro le possibilità di accesso ad essa. Poca cultura, deconflittuata e deconflittuante.
Siamo, così a me sembra, ad un punto cruciale per la vita democratica di questo paese. Sul piano sociale, sul piano istituzionale e anche sul piano culturale.
Allora credo che se vogliamo combattere fino in fondo la riduzione delle persone a cittadini consumatori, la “scarnificazione” delle donne e degli uomini operata dal liberismo e dalla globalizzazione capitalistica, la mercificazione dei bisogni, delle persone, dei corpi e della vita, occorre portare avanti politiche per la cultura che siano realmente basate sul valore strategico che questa riveste. Strategico per lo sviluppo e strategico sul piano economico per l’indotto che determina. Ma strategico per noi principalmente per l’utile culturale e dunque sociale che produce. Cultura e conoscenza non fattori di “coesione sociale” ma strumenti e momenti di formazione e di crescita, di consapevolezza critica, di conoscenza della realtà. Per modificarla, con e nel conflitto.
E cultura e conoscenza come beni comuni, non privatizzabili, ma anche patrimonio di tutti, bene inalienabile. Vuol dire anche cioè che a tutti va garantito l’accesso alla produzione ma ancora di più alla fruizione della cultura. E che per noi produzione culturale vuol dire quel mondo immenso e diffuso che tutti i giorni e su tutto il territorio col suo lavoro creativo ed artistico contribuisce a far crescere i saperi e la conoscenza, a combattere la passivizzazione e la solitudine. Vuol dire politiche economiche e sociali che garantiscano l’accesso ai luoghi di produzione culturale; vuol dire costruire spazi realmente pubblici in tutte le “periferie” di questo paese che siano realmente luoghi di produzione, sperimentazione, ricerca, confronto, fruizione. Luoghi del territorio.
Vuol dire pensare politiche economiche che consentano ai giovani e a chi ha basso reddito di accedere ad una sala cinematografica, ad un concerto, ad uno spettacolo teatrale, ad un museo, alla lettura dei libri. Vuol dire portare la produzione culturale nelle scuole e le scuole nei luoghi di produzione culturale.
Vuol dire sostenere la protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali nel mondo come nei nostri quartieri.
Ma considerare la cultura parte integrante del nostro programma sociale vuol dire anche e soprattutto partire dalla consapevolezza che quello nella cultura è lavoro e che chi lavora nei settori creativi, dagli scrittori agli orchestrali, dai registi agli sceneggiatori, dai musicisti ai tecnici e alle maestranze, chi lavora in tutti questi settori e qualunque “mansione” svolga è un lavoratore che ha e deve avere i diritti di tutti gli altri: diritti del lavoro, diritti di accesso alla produzione artistica, diritti di accesso alla formazione. Sono circa 280.000 i lavoratori iscritti all’Enpals: il 75 percento di loro non riesce ad avere una pensione. Le pensioni erogate non raggiungono di media i 13.000 euro l’anno, con un divario tra uomini e donne che arriva al 40 percento. Restano fuori ovviamente i lavoratori in nero e quelli obbligati alla “partita iva” che non riescono a versarsi i contributi, la maggior parte dei quali svolgono lavoro “creativo”: quel popolo di artisti o di archeologi o di restauratori, costretto all’ “autoimprenditorialità” e al quale però non è riconosciuta la possibilità di detrarre le spese sostenute per la professione. Perché quella non è considerata una professione.
Nella cultura il lavoro non solo è precario, ma spesso in nero e senza garanzie sugli infortuni. Sempre intermittente, o meglio apparentemente intermittente perché quello che emerge, quando riesce ad emergere, è solo il frutto di un lavoro molto più lungo e faticoso, sommerso e non riconosciuto. Considerare la cultura parte integrante del nostro programma sociale vuol dire stare con questi lavoratori, stare con e nelle loro lotte.
In un servizio televisivo sull’evasione scolastica dei bambini poveri in un quartiere povero di Palermo si chiedeva ad una donna di quel quartiere come aveva fatto a convincere il figlio a tornare a scuola. E lei rispondeva così: “gli ho detto: devi andare a scuola perché lì impari. Così ti puoi difendere. Da tutto”. Credo che nessuno avrebbe potuto definire in modo più semplice e al tempo stesso straordinariamente complesso il ruolo sociale della conoscenza.
E della cultura.
di Stefania Brai
“Su la testa” – n. 1 – febbraio 2010