È difficile parlare della gravità delle politiche del governo Berlusconi nei confronti della cultura, della conoscenza e dell’informazione in un momento in cui l’attacco ai lavoratori, ai loro diritti, allo stato sociale e alle istituzioni democratiche del paese è di una pesantezza senza precedenti.
Ma credo che dobbiamo tentare nell’analisi di cogliere il legame profondo che unisce tutte le azioni messe in atto da questo governo e che l’attacco di inedita gravità alla cultura e ai suoi lavoratori non è fatto accessorio e ininfluente, né determinato e motivato dalla crisi economica e dalla “necessità” di tagli, ma rientra esattamente nell’idea tutta strategica di demolizione della democrazia e delle conquiste dei lavoratori.
Questo governo ha ben presente l’importanza strategica della cultura. Ed è per questo che la combatte con tanta violenza e spregiudicatezza. Con la stessa violenza e spregiudicatezza con cui tenta di cancellare i diritti acquisiti dai lavoratori in anni di lotte.
Nella manovra economica in discussione in Parlamento c’è un articolo che prevede da un lato l’eliminazione totale di alcune istituzioni culturali - quali l’Ente teatrale italiano, l’Istituto nazionale di astrofisica e l’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale -, dall’altro l’eliminazione totale o la riduzione del 50 percento del contributo pubblico per altri 232 tra enti, istituzioni, fondazioni culturali e centri di ricerca tra i più prestigiosi d’Italia. Tra questi ultimi e solo per citarne alcuni, la Fondazione Einaudi e l’Associazione per la Riforma dello Stato, l’Istituto Gramsci e la Fondazione Basso, l’Istituto italiano di studi filosofici e il Gabinetto scientifico Vieussieux, la Quadriennale di Roma e la Triennale di Milano, il Museo storico della Liberazione di via Tasso, per finire con il Centro sperimentale di cinematografia.
Le proteste sono state tali e pressoché unanimi che dal decreto è sparito per ora l’elenco degli enti, ma non la necessità di eliminarne alcuni o di privarne altri dei contributi pubblici: starà al buon cuore del ministro Bondi decidere della sorte di ognuno, in base ai suoi ovviamente personalissimi criteri. Il tutto per portare nelle casse dello Stato meno di 20 milioni di euro.
Il Fondo unico dello spettacolo – che serve a finanziare non solo istituzioni culturali pubbliche quali la Biennale di Venezia, non solo i festival e l’associazionismo culturale, ma tutta la produzione culturale, dal cinema al teatro, alla musica, alla danza, alla lirica, allo spettacolo viaggiante fino ai circhi – è stato ridotto nella Finanziaria di quest’anno a circa 300.000 euro. Quando fu costituito, nel 1985, il Fus ammontava a 900 miliardi di lire ed inoltre era previsto l’aggiornamento annuo in base all’Istat, cosa peraltro mai avvenuta.
Per meglio capire cosa accade negli altri Stati europei, basterà dire che la Francia stanzia 12 miliardi di euro l’anno per la cultura, la Germania 8.6, la Gran Bretagna 5.3, l’Italia 1 miliardo e ottocentomila.
Sempre al Parlamento è in discussione il decreto “sulle intercettazioni telefoniche” che, oltre a mettere in ginocchio l’attività investigativa sulla criminalità, colpisce direttamente la libertà di informazione e di espressione nel nostro paese.
Nel frattempo è diventato legge il decreto “Romani” sul sistema delle comunicazioni e sta per essere convertito in legge il “decreto Bondi” sulle fondazioni lirico sinfoniche - ma non solo, anzi molto di più.
È ancora incerto il destino dei fondi pubblici all’editoria no profit, cooperativa, di partito, diffusa all’estero e all’emittenza locale.
È infine sotto gli occhi di tutti quello che sta avvenendo alla Rai e lo smantellamento scientifico del servizio pubblico radiotelevisivo.
Senza entrare nel dettaglio di ciascun decreto, vanno messi però in evidenza alcuni effetti di “merito” e di “metodo” molto gravi e che si ripercuoteranno non solo sul settore della cultura.
Il merito, cioè i contenuti dei decreti.
Dall’oggi al domani rischiano di sparire centri di eccellenza culturale, scientifica, storica, filosofica del nostro paese. Vuol dire rompere radici e tradizioni che non potranno più essere recuperate. Vuol dire rescindere la memoria storica e culturale del paese.
Vengono chiusi centri di ricerca e teatri di prosa e di opera lirica. Viene privata dei finanziamenti pubblici – quindi chiusa o privatizzata – l’unica scuola pubblica di alta formazione professionale nel settore cinematografico. Una scuola di prestigio internazionale che ha formato i migliori talenti del nostro cinema e non solo.
Vengono attribuiti al solo ministro – cioè al governo – funzioni e ruoli che del ministro non possono e non devono essere, quali la determinazione dei criteri e dell’entità per l’elargizione dei finanziamenti pubblici allo spettacolo dal vivo e la scelta stessa di chi dovrà o no ricevere i contributi.
Nelle fondazioni lirico-sinfoniche viene deciso per legge il taglio della retribuzione integrativa dei lavoratori, bloccato il turn-over, cancellati i concorsi pubblici, scavalcato il ruolo del sindacato e viene di fatto eliminato il contratto nazionale di lavoro.
Vengono pesantemente compromessi la libertà di informazione ed il diritto ad essere informati.
Potrebbero chiudere 40 testate giornalistiche indipendenti oltre ad un numero imprecisato di emittenti locali. Circa 4.500 posti di lavoro a rischio. Sempre più a rischio ampi spazi di libertà e di autonomia dei giornalisti.
Vengono sottratti i fondi pubblici alla produzione culturale. Vuol dire che chiuderanno teatri di prosa pubblici e privati – quelli indipendenti e legati ai territori -, che chiuderanno compagnie o lavoreranno sempre più in nero, che chiuderanno orchestre e conservatori. Vuol dire che saranno prodotti solo film “graditi” al mercato e chiuderanno sale cinematografiche (non i multiplex, ovviamente, nati per il cinema americano e spesso finanziati dai capitali del cinema americano).
Viene introdotta per decreto la censura – culturale e produttiva – nei mezzi di comunicazione di massa vietando per esempio trasmissioni che possono “nuocere alla salute fisica, mentale e morale dei minori” o non consentendo la trasmissione dalle 7 di mattina alle 23 di sera dei film vietati. Censura anche “produttiva” poiché oggi in Italia senza l’apporto economico delle televisioni non si produce nessun film, se non quelli “di Natale”, e quindi non ci sarà produttore indipendente in grado di dare vita ad un’opera cinematografica che anche solo per una scena può rischiare il divieto ai minori. Vale a dire: quali film si produrranno d’ora in avanti? E poiché aumentano per decreto anche le possibilità di interruzioni pubblicitarie durante la programmazione televisiva, quali film si produrranno se devono diventare contenitori di messaggi promozionali e quindi pensati necessariamente per arrivare al maggior numero di “consumatori” possibili? Quale Italia sarà raccontata e rappresentata?
Sono calcolati in circa 300.000 i lavoratori impegnati nella produzione culturale. Diventano più del doppio se si considerano quelli della distribuzione e della commercializzazione. Per il sindacato perlomeno il 30 percento di loro perderà il lavoro. Poi c’è l’indotto, incalcolato e incalcolabile: un’enormità di piccole imprese e piccoli artigiani che lavorano intorno e insieme alle istituzioni culturali (fondazioni lirico sinfoniche, teatri, studi cinematografici, conservatori, scuole di alta formazione professionale) o legati direttamente al territorio e alla produzione culturale e che verranno travolti a catena.
Il metodo.
Nei fatti a suon di decreti si stanno ristrutturando (non riformando, le riforme sono ben altra cosa), o meglio destrutturando, interi settori della produzione culturale e del sistema della comunicazione e dell’informazione in Italia.
Se qualcuno poteva ancora nutrire dei dubbi, viene così completamente vanificato e svuotato il ruolo del Parlamento e viene così completamente reciso il rapporto tra Parlamento – cioè istituzioni – e paese. Nessuna interlocuzione preventiva con chi lavora nei settori oggetto delle politiche governative, nessuna interlocuzione preventiva con le associazioni di categoria e sindacali che quei settori rappresentano. Nessun ascolto alle ragioni della protesta, nessun confronto. Non serve, le decisioni sono state già prese.
L’elenco potrebbe continuare. Ma tutto ciò è più che sufficiente a dire che ciò di cui si tratta non è una legge condivisa o meno, buona o cattiva. Ed è più che sufficiente a far capire che non si tratta di provvedimenti isolati, separati e non collegati l’uno all’altro. Sono tutti pensati per poter ridisegnare l’organizzazione della cultura, della comunicazione e dell’informazione, in modo tale da smantellare l’idea stessa della cultura e del sapere come diritto sancito dalla Costituzione.
E per capire la “cecità” anche economica dei tagli alla cultura in un momento di crisi, e quanto la crisi sia in realtà presa solo a pretesto, basta dire che tutti gli studi di economisti indicano che per 1 euro investito in cultura allo Stato ne tornano da 4 a 7.
Ma ovviamente non è questo o non è solo questo il punto.
Quello di cui si tratta è altro: con i fatti e nei fatti anche qui si sta distruggendo il sistema democratico di questo paese.
Lo si sta distruggendo tagliando alle radici la memoria, impedendo che l’arte, la cultura, la comunicazione, l’informazione – quando non addirittura la scuola – raccontino e rappresentino il paese reale, la sua storia passata e presente, le sue aspirazioni, le sue contraddizioni, le tante conflittualità diffuse, le storie, la vita quotidiana. Perché un paese che non si racconta non si conosce, un paese che non si conosce non esiste.
Lo si sta distruggendo quando si uccide la ricerca, cioè la speranza e il futuro.
Quando si impedisce la circolazione delle idee e con essa la crescita individuale e collettiva.
Quando si tagliano migliaia di posti di lavoro e si fa della precarietà del lavoro culturale un’arma di controllo: sulle persone e sulle opere.
di Stefania Brai
“Su la testa” – n. 5 – giugno 2010