La cultura e la conoscenza sono elementi determinanti per la formazione del senso comune, di quello che Le Monde definì una volta il "pensiero unico", basato sui valori della competizione e dell'affermazione individuale insieme ai modelli della notorietà e del "successo". Pensiero unico che l'intera gamma della comunicazione elettronica e cartacea ha costruito in anni e anni di lavoro sostenuto da leggi e interventi strutturali tendenti sempre a collegare la conoscenza, l'arte e tutta la vita culturale e formativa del paese alle logiche e alle leggi di un dio-mercato assurto a unico filtro regolatore e selezionatore della produzione e della diffusione della cultura.
Il rinnovamento della vita culturale all'insegna del pluralismo, della qualità e della creatività non è uno dei tanti punti necessari al progresso e al miglioramento del nostro paese, ma rappresenta un punto centrale e strategico di qualunque progetto di rinnovamento reale.

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Nel maggio 2016 scade la Convenzione che affida in esclusiva alla Rai il servizio pubblico radiotelevisivo. In un momento in cui la privatizzazione viene individuata da quasi tutti come unica soluzione ai gravi problemi della comunicazione e della informazione nel nostro paese, in totale controtendenza l’associazione Articolo 21 e la Fondazione Di Vittorio hanno il grande merito di promuovere un convegno per iniziare fin da adesso, e liberi dai condizionamenti delle contingenze politiche, a ragionare sulla futura Convenzione e quindi sulla ridefinizione del ruolo del servizio pubblico. Per aprire la discussione le due associazioni propongono alcuni punti di riflessione per “una nuova carta d’identità della Rai”.

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Cinema Nuovo Olimpia - Roma, 20 maggio 2013

Vorrei iniziare questa mia introduzione con alcune osservazioni di carattere generale, strettamente correlate anche se apparentemente non legate al tema del convegno.
La prima riguarda il quadro “culturale” generale nel quale ci muoviamo. Lo sintetizzo così, ovviamente e per forza di cose banalizzandolo e semplificando una realtà invece assai complessa: una ormai generalizzata sfiducia e “insofferenza” nei confronti della politica e delle istituzioni che produce rifiuto senza la forza di proposte di cambiamento. Le conseguenze sono da un lato una disperazione ed esasperazione generalizzata vissuta in totale solitudine data l’assenza di soggetti, politici e sindacali, legittimati alla rappresentanza, nei quali riconoscersi e con i quali battersi per uscire dalla propria condizione e dall’altro – da parte di chi invece continua in qualche modo a lottare collettivamente – una sorta di riappropriazione di ciò che è considerato un diritto, ma in forme in qualche modo “privatistiche”, non generalizzabili e non prefiguranti una nuova e diversa forma di Stato. Il risultato è un senso comune diffuso frutto della sconfitta culturale e sociale di tutti questi anni, incapace di elaborare un nuovo modello di società.

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Siamo a venti anni esatti dall’inizio della restaurazione proprietaria iniziata nel 1993. Allora furono avviati due profondi processi. Da un lato si iniziò la cancellazione delle regole urbanistiche sostenendo che il futuro della città sarebbe stato garantito dagli interventi privati. Dall’altro lato furono cancellate definitivamente le politiche di finanziamento e realizzazione degli alloggi pubblici.  Centodieci anni di ininterrotte politiche finalizzate alla realizzazione del sogno di fornire un’abitazione per le famiglie più povere furono cancellati in un sol colpo sulla base dell’ideologia liberista. Era stato il pensiero conservatore liberale sulla spinta del  nascente movimento operaio di inizio secolo a far approvare nel 1903 dal regio Parlamento la legge di istituzione degli Istituti per le case popolari. Luigi Luzzatti, l’ideatore del corpus legislativo, era un esponente della destra storica, ma aveva la straordinaria sensibilità –era stato anche fondatore e presidente di banca- per comprendere una cosa semplicissima: una parte delle famiglie dei salariati non poteva in base al reddito percepito accedere in alcun modo al bene casa: ero lo Stato, la collettività che se ne doveva fare carico.

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