“Ho 60 anni, senza lavoro e vado in pensione a 65 anni con 560 euro mensili. Dalla fine degli anni 90 ad oggi ho registrato continuamente perdite nel mio lavoro di direttore di orchestra ed organizzatore di spettacoli musicali … Ogni anno ho continuato a lavorare sperando in una ripresa, invece ho registrato continue perdite… ora sono giunto alla situazione che non ho più nulla per vivere, neanche per andare al mercato per i viveri quotidiani.

…La mia casa è andata all'asta il 12.10.2008 ed è risultata deserta. Ci riandrà a breve. Il danaro che ricaverò da tale asta serve per la banca e per i pagamenti Iva che ho evaso da 4 anni utilizzandoli esclusivamente per vivere nel quotidiano…


Perderò la casa che avevo acquistato con sacrifici in tutta la vita, … posso rassegnarmi a perdere tutto quello che avevo… ma non posso rassegnarmi a non poter mangiare…

Tra alcuni mesi sarò senza nessuna entrata, non avendo lavoro né pensione. Cosa debbo fare? Mi aiuti in qualche modo… non sapendo a chi rivolgermi per risolvere il problema…”.

Sono alcuni brani di una lettera che ho ricevuto esattamente due anni fa. Era diretta al prefetto di Ancona e mi veniva inviata per conoscenza. Era intitolata: “Aiuto!”. Ed era, allora, l’esplicitazione di una situazione che si andava silenziosamente diffondendo. Nella più totale solitudine.

Era il 2009 e cominciavano a farsi sentire gli effetti delle politiche devastanti nei settori della produzione culturale portate avanti dai diversi governi Berlusconi. Ed erano passati pochi mesi dalle dichiarazioni del ministro Brunetta, quando ribadiva la necessità di ridurre l’intervento della mano pubblica nella cultura, perché “l’assistenzialismo costruisce clientele e caste, … impigrisce e narcotizza la creatività…”. Quindi: “il mercato deve essere la medicina amara” che il mondo dello spettacolo deve ingoiare.

Oggi la medicina amara la stanno oggi ingoiando tutti: i lavoratori della produzione culturale, i cittadini privati del diritto di accesso alla cultura e ai saperi, un intero paese che rischia di vedere distrutto il proprio patrimonio artistico e culturale. Ed il proprio futuro.

Perché con la dismissione quasi totale del ruolo dello Stato nel finanziamento alla cultura (dai 500 milioni circa del 2008 ai 181 di oggi) si è portata a termine – “a basso costo” - un’operazione politica e culturale di portata “strategica”: impedire quella “diversità delle espressioni culturali” che una Convenzione dell’Unesco ha deciso di dover proteggere e promuovere nel mondo proprio per impedire che la cultura venisse considerata “merce” e come tale lasciata ai meccanismi del mercato.

Perché quando è così, e così da noi sta diventando, quel “mercato”, con i suoi meccanismi e le sue “logiche” di fatto seleziona l’offerta e costruisce una domanda sempre più orientate verso una monocultura egemonica incardinata nei valori oggi dominanti dell’individualismo e rappresentativi degli statuti sociali consolidati.

Giustamente e finalmente oggi si protesta per gli interventi del governo contro la libertà di informazione nei telegiornali e nelle rubriche della Rai, ma in tutti questi lunghi anni si è quantomeno sottovalutato l’intelligente processo di mercificazione del servizio pubblico radiotelevisivo e dei suoi programmi. È sostanzialmente anche da quella mercificazione che la cultura berlusconiana è potuta diventare egemone nel nostro paese.

Operazione “a basso costo”, dicevo, perché i trecento milioni di euro tolti al Fondo unico dello spettacolo costituiscono davvero una cifra irrisoria per il bilancio di uno Stato ma l’effetto che produrranno sarà incalcolabile e devastante per tutti.

Devastante per i lavoratori della cultura. Un mondo “invisibile” di artisti, tecnici e maestranze che oggi è costretto a lavorare a cifre ormai irrisorie e spesso in nero; un mondo di “invisibili” spesso sotto la soglia della povertà, un mondo di donne e uomini “fortunati” quando riescono a fare i camerieri, i pony, gli autisti e quant’altro trovano per riuscire a sopravvivere tra uno spettacolo e l’altro, tra un concerto e l’altro, tra un film e l’altro, cioè per interi mesi. Artisti, tecnici e maestranze privi di ammortizzatori sociali che perderanno in migliaia il lavoro e che non riusciranno a raggiungere i requisiti minimi per la pensione. Professionalità che non si recupereranno più: il mondo del teatro, della musica, della lirica, del cinema è composto e circondato da artigiani e “botteghe” che trasmettono le loro competenze eccezionali col e nel lavoro. Finito questo, rischiano di perdersi mestieri d’eccellenza che hanno dato vita a scenografie, luci, immagini, costumi, suoni, costruzioni che hanno contribuito a determinare la qualità delle nostre opere teatrali, musicali e cinematografiche.

Devastante per la produzione culturale. Con l “ignominosa scure sulla cultura”, come l’ha definita Muti, stanno chiudendo teatri famosi come il Duse di Bologna, ma stanno chiudendo i tanti teatri storici di cui è fortunatamente ricco tutto il nostro territorio. Stanno chiudendo le imprese di produzione teatrale e si sciolgono le compagnie. Sono in difficoltà persino i grandi teatri stabili privati che senza i finanziamenti pubblici non riescono a “stare sul mercato”. Le fondazioni lirico-sinfoniche sono ridotte allo stremo: si riducono le opere in cartellone, si chiudono corpi di ballo, si licenziano gli orchestrali e gli artisti del coro.

Stanno chiudendo per fallimento le tante imprese indipendenti di produzione cinematografica che hanno costituito la garanzia di un’offerta plurale e di qualità. Chi resiste delocalizza le produzioni all’estero, dove la “manodopera” costa meno. Le sale d’essai, quelle che proiettano cinema d’autore e che consentono al cinema di qualità di tutto il mondo di arrivare in Italia, non ce la fanno più non solo per i tagli al Fus ma per l’aumento del costo del biglietto deciso nel milleproroghe. CinecittàLuce, la spa a totale partecipazione pubblica che ha unito Cinecittà holding e Istituto Luce in una unica società, è stata messa in stato di crisi dal ministero. Si parla di più di 60 licenziamenti, si parla della perdita del più grande archivio storico audiovisivo del nostro paese, si parla della possibilità di produzione di opere prime e seconde e di documentari, si parla di distribuzione di pellicole di qualità. Cioè si parla prima di tutto dei giovani.

Come in tutti i settori anche qui resiste e diventa più forte chi è già forte: le grandi distribuzioni, i grandi circuiti di sale, le grandi produzioni, i grandi eventi. Tutti privati, tutti “sul mercato”.

Tutto questo vuol dire non solo che si sta tentando di fare terra bruciata della nostra cultura e della nostra produzione artistica, cioè del bene più prezioso di un paese. Quello che si sta tentando di fare è proprio di “narcotizzare” la creatività e con essa il paese.

Se andrà avanti il progetto di questo governo di mercificazione della cultura e di privatizzazione dei saperi, se la produzione culturale non potrà più contare su risorse pubbliche e certe, a garanzia di un pluralismo culturale e produttivo liberato “dal” mercato, vedranno la luce solo quelle opere costruite con quegli ingredienti di “gradevolezza” che rispondono alle richieste di un mercato “drogato”, cioè a quella domanda che si è formata in anni di offerta monoculturale e ad essa omologata. E non solo perché non si troveranno “sul mercato” i soldi per produrle, ma perché scatterà – è già scattato, specialmente nelle giovani generazioni – un meccanismo di autocensura e di autolimitazione che porterà autori ed artisti a proporre – ma anche a pensare – solo opere e progetti che abbiano un minimo di speranza di essere accettati.

Quello che si vuole impedire è esattamente la circolazione delle idee e con essa una proposta culturale che possa diventare strumento di consapevolezza critica e crescita collettiva. Quello che si vuole impedire è il racconto del paese reale, dei suoi problemi, dei suoi conflitti. E a volte Ruby serve anche a questo.

Due anni fa quella lettera del direttore d’orchestra raccontava non solo della disperazione di una condizione, ma della disperazione della solitudine. Oggi quella condizione è diventata diffusa ma anche condivisa e, a differenza di allora, si sta finalmente cominciando a reagire a quelle disperazioni e a quelle solitudini. Con la presa di coscienza che la politica dei tagli del governo non ha nulla a che fare con la crisi economica ma risponde ad un progetto politico e ad una precisa idea di società, con la costruzione di movimenti di lotta che uniscono tutti i settori della produzione culturale, gli studenti e i ricercatori.

Il rischio grave è però che un mondo arrivato allo stremo alla fine si accontenti di poter ricominciare a vivere; si accontenti di una legge qualunque, meglio se bipartisan, pur di avere una riforma del sistema o, peggio, che un possibile cambio di governo sia una garanzia in sé e che quindi alle lotte si sostituisca il silenzio come modo migliore per sostenere un governo finalmente “amico”. Così come il rischio è che non si faccia chiarezza delle tante ambiguità interne ai movimenti sullo stesso ruolo dello Stato nella cultura e nella società.

Voglio dire che la cosa più difficile sarà combattere quella cultura berlusconiana diventata senso comune diffuso in tanta parte della società.

Voglio dire che c’è bisogno di un progetto ambizioso e impegnativo sulla cultura perché, come scriveva Bertolucci su Repubblica alcuni anni fa, “si possa vedere un film che non esiste, leggere un libro che ancora non è stato scritto”. Per poter tornare a raccontare la vita vera del nostro paese, perché un paese che non si racconta non si conosce, un paese che non si conosce non esiste.

Stefania Brai, responsabile nazionale cultura Prc

“Su la testa”, n. 14 – marzo 2011

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