È difficile parlare delle politiche per il cinema – di quelle che bisognerebbe mettere in atto, a mio parere – senza parlare prima delle politiche attuate da questo governo nei confronti della cultura e quindi del cinema. Senza avere presente cioè lo stato delle cose che vogliamo cambiare. Ma per fare questo bisogna anche avere bene presenti gli errori compiuti dai governi di centro sinistra e, per essere ancora più chiari, le politiche veltroniane nei confronti della cultura (e non solo, ovviamente).

Mi riferisco alla trasformazione delle istituzioni culturali pubbliche in fondazioni di diritto privato per dare loro “efficienza, efficacia, economicità”, trasformazione che somiglia molto ad una privatizzazione e che consente – per esempio nel consiglio di amministrazione della Scala di Milano - la presenza di imprenditori, banchieri, commercianti e politici e di un solo “addetto ai lavori”: Stéphane Lissner in quanto direttore artistico. Mi riferisco all’eliminazione di qualunque rappresentanza delle forze culturali, sociali e produttive dalla gestione di quelli che un tempo erano “luoghi pubblici” della cultura, riducendo le nomine delle istituzioni ad un fatto "privato", in senso oggettivo e soggettivo, e di esclusiva competenza dei governi, cioè dei ministri di turno. I lavoratori di quei settori, i lavoratori della cultura, non hanno motivo di avere voce in capitolo.
Sono state così nei fatti azzerate le grandi riforme realizzate all’insegna della democratizzazione e della partecipazione nella metà degli anni settanta: Biennale di Venezia, Rai, Enti cinematografici di Stato.


Mi riferisco – per quello che riguarda in particolare il cinema – alla liberalizzazione delle licenze per le sale cinematografiche, che ha permesso l’espansione senza controllo sul territorio nazionale dei multiplex (le “case del cinema americano”, come le chiama Fernando Solanas) e la conseguente morte delle cosiddette “sale di città”, le “case” del cinema italiano ed europeo. Ancora, e sempre per il cinema, la trasformazione delle “film commission” - nate sui territori per fornire servizi alle produzioni - in strutture private che gestiscono soldi pubblici.

Mi riferisco, più in generale, ad una idea - e quindi a una politica - di trasformazione di tutto ciò che produce cultura in “azienda”, ad una idea – e ad una politica - di dismissione di fatto del ruolo dello Stato in favore del mercato come “ filtro regolatore”, ad una idea di cultura come “grande evento” da elargire ogni tanto – le notti bianche ne sono un esempio lampante –. Una politica i cui assi portanti sono stati la concentrazione del potere decisionale ed economico in pochissime mani e la privatizzazione di fatto dei luoghi di formazione, produzione e di fruizione della cultura.

Così i governi Berlusconi si sono trovati la strada già aperta per quell’opera di privatizzazione e mercificazione della cultura e in essa del cinema che tanta devastazione ha provocato.

Per capire il perché di un attacco di tale e inedita gravità alla cultura bisogna avere bene chiaro che questo non è motivato né determinato dalla crisi economica e dalla “necessità” di tagli (i circa 200 milioni tolti al Fondo per lo spettacolo hanno annientato la produzione artistica ma non sono certo stati determinanti per la crisi economica), ma rientra esattamente nell’idea tutta strategica di demolizione della democrazia, del pluralismo e delle conquiste dei lavoratori. Questo governo ha cioè ben chiara l’importanza della cultura come strumento fondamentale di crescita individuale e collettiva, di conoscenza della realtà, di formazione del “senso comune” e di sistemi di valore. Ed ha ben chiaro che il cinema, tra tutte le forme di produzione culturale e artistica, è forse l’arma più potente e meno controllabile, proprio per le sue caratteristiche: forma d’arte e insieme industria, ma “industria di prototipi”: ogni film è un’opera e un’impresa a se stante, unica e irripetibile. Per controllarla devi impedirne o condizionarne la nascita o non farla circolare.

Per questo lo si combatte con tanta violenza e spregiudicatezza. Nei primi governi in maniera più “soft”, varando una legge sul cinema che condizionava l’attribuzione dei fondi pubblici non più soltanto alla qualità dell’opera cinematografica, ma a dei cosiddetti “parametri di mercato”. Si instaurava così il famigerato “reference system” in base al quale avrebbero potuto ottenere finanziamenti solo quelle opere i cui registi, sceneggiatori, attori, produttori, costumisti, scenografi, direttori della fotografia avevano partecipato a film con grandi incassi di mercato.

Ma questo non è stato sufficiente ad uccidere un cinema indipendente e d’autore e quindi iniziano prima gli attacchi di Brunetta (“il mercato deve essere la medicina amara” che il mondo dello spettacolo deve ingoiare) e poi la scure delle diverse finanziarie ai fondi per lo spettacolo e per il cinema.

La realtà di oggi parla di una produzione cinematografica indipendente messa in ginocchio dalle politiche di questo governo. In termini reali il Fondo unico dello spettacolo dal 1985 (anno in cui è stato istituito) ad oggi è diminuito del 51 percento e la quota per il cinema è diminuita del 64 percento (vorrei ricordare, per avere ben chiare le scelte politiche degli ultimi governi, che la spesa militare dal 2000 ad oggi è aumentata del 49 percento). I fondi del Fus riservati al cinema per il 2011 ammontano a 75,8 milioni di euro e dovrebbero servire a finanziare la produzione, la promozione (festival, Biennale di Venezia, Centro sperimentale di cinematografia, Cinecittà-Luce, associazionismo, promozione all’estero, eccetera) e la distribuzione. In Francia solo per il cinema il finanziamento pubblico è stato di 576 milioni nel 2010, di 750 milioni nel 2011.

In Italia si producono mediamente 100-120 film l’anno (di cui solo 60 hanno un’uscita “nazionale”, almeno sulla carta), in Francia 230. In italia si staccano, sempre mediamente, 100 milioni di biglietti l’anno, in Francia più di 200 milioni.

Per uscire da questa situazione la richiesta unanime del mondo del cinema e della politica (quella all’opposizione, ovviamente) è una legge di sistema, che affronti cioè tutti i nodi e i passaggi: dall’ideazione, alla produzione, alla distribuzione, all’esercizio, alla promozione.

Fin qui, appunto, l’unanimità. Se poi però si entra nel merito delle soluzioni concrete iniziano a volte i distinguo a volte e molto più spesso le ambiguità. E su queste ambiguità io credo occorra fare molta chiarezza. Per capire, per misurare le differenze, per confrontarci realmente, ma soprattutto per non rischiare di ritrovarci ancora una volta ad appoggiare programmi generici e quindi apparentemente condivisibili, ma che in realtà per essere attuati sottintendono la necessità di scelte politiche ben precise e sulle quali non c’è affatto unanimità, perlomeno a mio parere.

Provo quindi ad elencare i nodi di fondo da sciogliere e le scelte sulLe quali occorre pronunciarsi con chiarezza. E per maggiore chiarezza dico che le proposte che io condivido in pieno sono quelle elaborate dalla parte più attiva e fattiva del cinema italiano (ma non condivise da tutta la politica) nel seminario promosso dalle Giornate degli autori alcuni anni fa ma tutt’ora validissime.

Il primo riguarda la filosofia di fondo, l’anima di qualunque testo di legge: l’intervento dello Stato e i finanziamenti pubblici. Abbiamo davvero sgombrato il campo dal concetto di assistenzialismo? Siamo davvero tutti convinti che la cultura sia non solo un bene comune ma anche un diritto inalienabile e come tale ambito strategico di investimento pubblico? Strategico non solo per lo sviluppo economico del nostro paese, ma strategico per lo sviluppo culturale e dunque sociale che produce. Strategico per la democrazia. Siamo davvero tutti convinti che solo l’investimento pubblico può consentire la nascita di opere fuori dai meccanismi del mercato, consentendo un reale pluralismo culturale e produttivo e quindi una reale circolazione delle opere e delle idee? Che, infine, dalla crisi si esce non con più mercato ma con più Stato e più cultura? Non credo: molte ancora sono le voci politiche e culturali che sostengono – a volte sommessamente, a volte più apertamente – che il cinema deve trovare solo sul mercato le sue fonti di finanziamento.

Ma da qui, da questa “scelta” dipendono e discendono tutte le altre.

Secondo. Il Centro nazionale di cinematografia. Anche qui un’apparente unanimità, per lo meno sul “titolo”. Il Centro nazionale di cinematografia, sul modello francese, dovrebbe essere un organismo autonomo dal governo, indipendente nella gestione economica e negli indirizzi culturali, gestito dalle forze del settore e che assorbe tutte le attuali funzioni della direzione generale per il cinema del ministero dei Beni e delle attività culturali. Il Centro gestirà tutte le risorse provenienti sia dalla fiscalità generale (Fus, lotto, lotterie e quant’altro) che dalla fiscalità di scopo.

In cosa consistono le apparenti convergenze e le reali divergenze? Sulla forma giuridica del Cnc: se deve essere ente di diritto pubblico, come io credo, oppure no. Sulla sua reale autonomia dal governo: se si propone, come alcuni propongono, che il direttore generale sia nominato dal ministro di turno – al quale deve rispondere di tutto – e non dal consiglio di amministrazione del Cnc è difficile sostenere che si vuole l’autonomia del Centro. Se contemporaneamente non si indica nel testo di legge che il consiglio di amministrazione è formato da rappresentanti delle forze produttive, culturali e sociali del settore, è difficile negare che in realtà si sta proponendo un organismo fotocopia del ministero e per di più in formato “privatistico” e quindi ancora meno democraticamente controllabile.

Terzo. La fiscalità di scopo. È un prelievo, chiesto da tutto il mondo del cinema, su tutti i soggetti che a vario titolo e con diverse tecnologie utilizzano le opere cinematografiche traendone profitti. In Francia è un sistema ormai stabile che viene applicato a tutta la filiera che utilizza il cinema (sala, free, paytv, dvd, tv, telefonia, internet, eccetera). Quali sono le forze politiche che si impegnano a toccare interessi tanto forti? Anche questa è una scelta politica di fondo e va esplicitata con chiarezza, adesso.

Quarto. Finanziamenti selettivi e finanziamenti automatici. Siamo davvero tutti d’accordo nel sostenere che la quota maggiore di investimento va finalizzata al finanziamento selettivo e che questo riguarda non solo le opere prime e seconde (le terze non arriverebbero mai) ma a tutti quei film che senza intervento pubblico non potrebbero mai nascere? E siamo davvero tutti d’accordo che la parte automatica non può essere erogata in base agli incassi e cioè al mercato – come quasi tutte le proposte di legge prevedono – perché così i ricchi sarebbero sempre più ricchi? Perché così sopravviverebbero solo alcune, poche grandi produzioni?

Ultimo, ma non certo di importanza, l’antitrust (parola che in questi anni non si è quasi potuta pronunciare, anche a sinistra). Se si vuole “un mercato realmente dinamico dal punto di vista della concorrenza e pluralistico nei contenuti… è necessario impedire un’integrazione verticale che consenta di assommare per ciascun soggetto proprietario, più di 2 attività tra le seguenti: emittenza radiotelevisiva, produzione, commercializzazione, diffusione, esercizio. È necessario assicurare la circolazione delle opere cinematografiche limitando, su base annua, la quota di mercato di una società di distribuzione e la sua simultanea presenza sugli schermi su scala nazionale e territoriale” (da il seminario delle Giornate degli autori). Tradotto: Rai e Mediaset non possono essere in contemporanea emittenti radiotelevisive, produttrici e distributrici di film, proprietarie di sale cinematografiche. Se non si fa questo, se si continua ad accettare un mercato “drogato” come quello attuale, si impedisce non solo una reale libertà d’espressione ma si lede nei fatti il diritto di ogni cittadino ad accedere alla cultura.

È in questo momento di crisi del paese, di una crisi così grave dal punto di vista economico, sociale e culturale che la sinistra deve assumersi la responsabilità di indicare con chiarezza quali sono gli interessi e i diritti che si impegna a difendere. Quale progetto di società vuole andare a costruire.

Stefania Brai
(responsabile nazionale cultura Prc)

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