Sono diverse le ragioni per cui come Rifondazione abbiamo pensato di organizzare – anche un po’ in fretta – questo incontro su Cinecittà-Luce.
La prima riguarda ovviamente il merito, e cioè che consideriamo inaccettabile quanto avvenuto e sta avvenendo a Cinecittà-Luce.
Ma abbiamo ritenuto giusto organizzarlo in questo momento perché siamo in un brevissimo periodo di “transizione”, in una brevissima pausa di attività politica. Il ministro Galan ha dovuto interrompere la sua frenetica attività di nomine (ma ha fatto in tempo a fare danni anche gravi), è appena nato il nuovo governo dei “tecnici” ed è appena stato nominato il nuovo ministro per i beni e le attività culturali. A dire il vero – a prescindere dal giudizio politico che Rifondazione dà su questo governo – ci si aspettava che proprio in un governo di esperti fossero perlomeno le competenze nei rispettivi settori a guidare la scelta dei ministri. Ma per la cultura sappiamo bene che spesso – molto spesso - non è così. Ci auguriamo quindi che il professor Ornaghi prima di prendere qualsiasi iniziativa politica decida di dare immediatamente il via alle consultazioni con le forze sociali e culturali del settore e con tutte le categorie professionali.
Questo convegno vuole essere anche un primo contributo in questa direzione.
Ma vuole essere anche due altre cose. È per noi ovviamente una occasione per dire la nostra su questi temi ma anche per dire subito con molta chiarezza che – per quello che ci consentono le nostre forze – come abbiamo combattuto Berlusconi continueremo a combattere le politiche che il governo Berlusconi ha portato avanti in questi anni e che non possono essere riproposte sotto altre sembianze.
Sarebbe a nostro parere gravissimo – non solo sul piano politico ma per le conseguenze reali e materiali che produrrebbe – se prevalesse l’idea del “governo amico” che si deve lasciar lavorare. Lo abbiamo sempre detto quando eravamo anche noi coinvolti nel governo Prodi, lo ripetiamo oggi a maggior ragione di fronte a una crisi così pesante per il paese ed anche per i nostri settori e per la cultura in generale.
Così come continueremo a combattere il berlusconismo - che certo non finisce con la caduta di Berlusconi - e con esso quel sistema di valori che ha permeato la nostra società negli ultimi venti anni, se non di più, che purtroppo ha formato intere generazioni e che ha desertificato il nostro paese e le nostre intelligenze.
Mi riferisco, per quello che ci riguarda, alla riduzione della cultura e del sapere a merce, alla dismissione del ruolo dello Stato e dell’intervento pubblico nella cultura. All’idea che siano le regole e i meccanismi del mercato gli unici filtri regolatori della produzione culturale. All’idea che la cultura per avere un valore debba produrre profitto e all’idea – diffusa purtroppo anche a sinistra – che le privatizzazioni delle istituzioni culturali siano la soluzione ai loro problemi. Siccome la politica non solo non ha dato regole a tutela del “pubblico”, delle professionalità e del pluralismo, ma ingerisce continuamente e pesantemente nella gestione diretta delle istituzioni, allora la soluzione che si vede non è quella di lottare per una riforma democratica e partecipata di tutto ciò che è “pubblico”, cioè di tutti, ma di individuare nel privato – la fondazione è il modello più amato – la soluzione di tutti i mali.
Ma mi riferisco anche all’idea – in piena continuità con il berlusconismo – che il sapere e la cultura siano mezzi per “rendere più istruita la nostra forza lavoro”, come ha detto il professor Monti nel suo discorso al Parlamento. Che cioè il sapere e la cultura non siano fondamentali fattori di crescita individuale ma debbano essere finalizzati all’inserimento nel mondo del lavoro. Si passa dall’essere puri consumatori di merci all’essere “capitale umano”.
Noi pensiamo invece che la cultura e il sapere siano non solo un “bene comune”, cioè non mercificabile, ma che siano anche un diritto inalienabile di ogni persona. Un diritto perché la cultura e il sapere sono tra gli strumenti fondamentali per la formazione di una coscienza critica, strumenti fondamentali di conoscenza e consapevolezza e quindi liberazione umana. E’ la nostra Costituzione che dice: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli… che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
E vengo al merito del convegno.
Quello che è avvenuto a Cinecittà lo sappiamo tutti. Dicevo prima che per noi è inaccettabile: lo è per i modi e ovviamente per i contenuti.
Per i modi perché come hanno evidenziato gli autori – ma direi tutto il mondo del cinema - le nomine della nuova società sono avvenute ancora una volta non solo senza consultare nessuna delle associazioni culturali e professionali del cinema ma, sempre ancora una volta, senza tener conto delle professionalità e delle competenze (mi riferisco ovviamente alla nomina a presidente di Rodrigo Cipriani, ex amministratore delegato dI Mediashopping e presidente della società Buonitalia dedicata alla “valorizzazione degli agroalimentari”). Ed è ancor più grave che a governo dimissionario si sia andati comunque avanti con la costituzione formale della nuova società.
Ma quello che noi consideriamo davvero inaccettabile è l’operazione del cosiddetto “riassetto” di Cinecittà-Luce che a nostro parere è in realtà una vera e propria demolizione di quello che è stato un luogo di intervento “pubblico” fondamentale per il cinema italiano degli ultimi 40 anni. Il tutto in nome ovviamente della razionalizzazione delle spese e delle funzioni.
Non faccio qui la storia degli ultimi lunghi anni di politiche ministeriali relative a quell’istituzione: dall’acquisto fallimentare del circuito di multiplex (che registrava un deficit annuale che andava dai 9 ai 5 milioni di euro), alla costituzione costosissima di società chiuse dopo poco tempo. Alla continua limitazione dei compiti che le società dovevano svolgere. Fino ad arrivare all’ultima norma inserita in una delle finanziarie di luglio che ha trasformato Cinecittà-Luce da società a capitale interamente statale in una srl con un capitale sociale di 15.000 euro, le cui missioni ridotte sono: “valorizzazione” dell’archivio del Luce, distribuzione opere prime e seconde ma solo quelle finanziate dal Mibac, e alla promozione del cinema italiano all’estero. Cioè non si produrrà più.
È una storia che conosciamo tutti. L’idea è che in assenza di fondi si smantella un patrimonio prezioso per la cultura italiana con pesanti conseguenze anche sull’occupazione e il lavoro. Ma un’altra ipotesi è che l’idea di fondo che ha accarezzato Galan e che potrebbe accarezzare oggi altri ministri è che da quelle macerie nasca non il Centro nazionale per il cinema, ma la famosa Agenzia (con vertici già pronti e tutela ministeriale anche).
Quello che allora ci interessa discutere qui, anzi iniziare a discutere da qui è un progetto di rilancio del cinema pubblico che faccia ridiventare Cinecittà-Luce un volano per tutto il cinema italiano.
Quando come gruppo di lavoro sul cinema di Rifondazione abbiamo discusso l’impostazione di questo convegno ci è tornato alla mente uno slogan del ’68 che abbiamo rielaborato così: “siamo realisti, vogliamo l’impossibile”.
E l’impossibile che vogliamo è per noi l’idea che da questa crisi si esce con un grande investimento pubblico in cultura e non tagliando, rafforzando il ruolo dello Stato e non privatizzando le istituzioni pubbliche.
Dico una cosa che mi fa fatica dire, perché noi pensiamo che siccome la cultura è un diritto, lo Stato debba investire in cultura a prescindere dall’utile economico che ne ricava. Perché, pensiamo noi, l’utile che se ne ricava e che ci interessa è culturale e dunque sociale. Ma cerco di entrare nella mentalità dei nuovi ministri tecnici che ci governano e che di economia se ne intendono. Tutti gli studi economici hanno dimostrato che per ogni euro investito in cultura allo Stato ne tornano da 5 a 7 (la discussione è solo sulla quantità) e che quindi la cultura è un volano indispensabile per lo sviluppo economico. Allora se si continua a tagliare nella scuola, nell’università e nella produzione culturale vuol dire che altri sono i motivi, vuol dire che sono ancora vive le politiche berlusconiane volte ad impedire la crescita dell’intelligenza collettiva, un reale pluralismo e la circolazione delle idee.
L’impossibile che vogliamo è l’idea che dalla crisi si esce con un grande progetto che a nostro parere deve ridare al cinema pubblico i compiti di produzione, di distribuzione, di sviluppo delle sceneggiature, di attenzione agli esordi, ma non solo, e di promozione della cultura cinematografica. Di reale valorizzazione del patrimonio archivistico che possiede e di reale valorizzazione del patrimonio di competenze umane e di professionalità. È ovvio che siamo per la razionalizzazione della gestione, ma questo tra noi dovremmo darlo per scontato.
L’impossibile che vogliano è un ritorno a maggioranza pubblica di Cinecittà studios. Dall’inizio della privatizzazione, se sono esatti i dati pubblicati dai giornali, il valore della produzione è diminuito del 40 percento, i costi sono aumentati del trenta (per cui conviene andare negli stabilimenti privati), i bilanci chiudono in negativo, i debiti pregressi sono di circa 30 milioni, la maggior parte degli studi è utilizzata dalle produzioni di Mediaset, i lavori vengono appaltati a società esterne con la conseguente esclusione delle professionalità interne (quelle professionalità che tutto il mondo ci invidiava e per le quali si veniva a lavorare a Cinecittà). E la soluzione individuata sembra essere la cementificazione e tutto ciò che può fare cassa: dai parchi a tema alla costruzione di parcheggi sotterranei, di alberghi e di centri fitness. I privati investono dove pensano di avere profitti, pare ovvio.
Noi pensiamo invece che l’unico piano di rilancio di Cinecittà sia nel cinema e che quindi anche qui serve un progetto pubblico di investimento nelle attività, nei servizi, nella ricerca e nella formazione che consenta l’abbattimento dei costi e dei tempi di produzione - per far ritornare Cinecittà ad essere competitiva con gli altri studi -, e che insieme punti sulla ripresa delle attività delle imprese artigiane e sulla valorizzazione di una manodopera interna altamente specializzata che oggi è messa invece fortemente a rischio.
L’impossibile che vogliamo è un grande progetto sul cinema pubblico all’interno di una riforma di sistema del settore che chiediamo da anni.
Una riforma che faccia nascere un Centro nazionale per il cinema come ente di diritto pubblico, realmente autonomo dal governo e gestito dalle forze del cinema; una riforma che abbia il coraggio di affrontare normative antitrust che liberino finalmente il mercato dagli oligopoli che lo ingessano; che abbia il coraggio di mettere in campo una tassazione di scopo su tutti i soggetti che dal cinema traggono profitto; che riconosca finalmente la dignità e la tutela del lavoro a chi nella cultura lavora; che metta in atto politiche sociali ed economiche per rendere la cultura realmente un diritto e per garantirne l’accesso, a cominciare all’Iva al 4 percento e politiche mirate sui prezzi dei biglietti. Gli ultimi dati della Siae ci dicono che tengono le spese per teatro e lirica (consumi più costosi) e diminuiscono quelle per il cinema (consumi più “popolari”). Vuol dire che c’è sempre più divario tra chi ha i soldi e chi fatica ad arrivare a fine mese e che quindi c’è sempre anche più divario tra chi può permettersi la cultura e chi no.
Di questo nostro “impossibile” vogliamo discutere e per questo lanciamo da qui una proposta: che da questo convegno nasca un tavolo di lavoro tra le forze sociali, culturali e politiche per elaborare insieme un progetto alto di riforma del settore, come fu il seminario promosso dalle giornate degli autori alcuni anni fa. E che lavori da subito, perche da come si esce da questa crisi dipenderà il futuro della nostra produzione culturale.
Stefania Brai
Responsabile nazionale cultura del Prc