di Alberto Burgio
Se nei commenti della grande stampa sopravvivesse un briciolo di onestà intellettuale, si vedrebbe nella spinta alla "concentrazione capitalistica", operata da Monti, la vera causa della proletarizzazione del ceto medio.
Ragionare su Monti e il suo governo «a babbo morto» sarebbe vano se non fosse che le cose si capiscono meglio alla fine e che anche quanto è accaduto negli ultimi giorni è interessante. Senza contare che le conseguenze nefaste di questo anno «tecnico» ce le trascineremo a lungo. Monti non scompare per il semplice fatto di andarsene finalmente da palazzo Chigi.
Giocano, in questa vicenda, aspetti oggettivi e soggettivi. Tra i primi, l'americanismo, cioè l'imitazione del modello sociale statunitense, la sua traduzione in salsa italiana. Quando Gramsci rifletteva sulla questione al tempo del fascismo, gli Stati uniti erano sinonimo di efficienza e razionalità. Taylorismo e fordismo evocavano l'impiego ottimale delle forze produttive. E Gramsci si diceva scettico sull'esito dell'operazione americanista poiché riteneva improbabile che il fascismo realizzasse quella «razionalizzazione della popolazione» che ne costituiva la premessa indispensabile. La distruzione delle «classi assolutamente parassitarie» (settori della burocrazia statale e del commercio, clero e proprietà terriera) avrebbe comportato un rischio mortale, giacché tali settori sociali rappresentavano un elemento portante del regime.
Oggi le cose non stanno in questi termini. I «parassiti» (la rendita finanziaria) proliferano e dominano tuttora, ma l'America non è più un modello di razionalità. Soprattutto, non è più vero che la traduzione italiana del modello americano sia così improbabile o rudimentale come appariva a Gramsci. La finanziarizzazione ha modificato in profondità l'assetto dei poteri sovrani sul piano globale, assottigliando le distanze tra le due versioni del capitalismo che ancora quindici anni fa si contendevano la scena sulle due sponde dell'Atlantico. Il modello anglosassone, thatcheriano e reaganiano, ha stravinto, conquistando l'Europa. Ammesso che i padri della Ue intendessero preservare la specificità del capitalismo renano, i Trattati fondativi dell'Unione sono stati un capolavoro dell'eterogenesi dei fini. Il monetarismo ha conferito piena legittimità agli spiriti animali e promosso la trasformazione delle società in grandi mercati. È divampato il conflitto tra diritti individuali e sociali predicato dall'intera tradizione liberale, da Hayek a Nozick, a Richard Posner. E la forma di merce si è affermata come ontologia generale, l'unica pertinente per cose e persone.
È stato un processo rapido ma non sincronico, nel quale l'Italia era in serio ritardo sino a qualche mese fa. I vecchi parassitismi con le loro reti clientelari resistevano, intralciando l'avvento dei nuovi. Così come resistevano ultimi retaggi di diritti sociali, protetti da forze politiche interessate a mantenere il consenso delle classi subalterne. Il governo Monti è entrato a gamba tesa in questo scenario «arretrato», e ha dato un formidabile impulso alla «modernizzazione» neoliberista, con la conseguenza di esasperare la già estrema iniquità del paese.
Il presidente del consiglio ha preservato le rendite del sistema creditizio e della speculazione finanziaria; si è fatto solerte garante e zelante portavoce dei «mercati» e delle istituzioni europee al loro servizio; ha tutelato i grandi patrimoni, rifiutando categoricamente di tassarli. In una parola, ha dato una grossa spinta alla «concentrazione capitalistica» che Gramsci considerava, a ragione, la chiave del modello americano. Se nei commenti giornalistici della grande stampa sopravvivesse un briciolo di onestà intellettuale, in questo processo si indicherebbe la vera causa della proletarizzazione del ceto medio italiano, che si preferisce invece addebitare a un deficit di produttività imputato per l'ennesima volta al lavoro dipendente.
Proprio l'offensiva contro il lavoro (cancellato dal novero dei diritti e derubricato a fortuita concessione della buona sorte) e l'attacco al reddito dei lavoratori sono, naturalmente, gli elementi ordinatori del movimento e la sua cifra essenziale. Si è finto di non vedere la struttura asimmetrica del rapporto capitale-lavoro, il riconoscimento della quale ispira, in linea di principio, la Costituzione della Repubblica. Si è ribadita la litania della libera concorrenza garante dell'assetto ottimale del sistema, come se l'ultimo trentennio e la crisi che stiamo vivendo non dimostrassero ictu oculi il contrario: che la deregolazione dei mercati finanziari e delle relazioni industriali radicalizza ineguaglianza, precarietà e povertà delle classi lavoratrici, va di pari passo con la distruzione del welfare e favorisce la privatizzazione post-democratica delle istituzioni. Si è smantellata ogni residua tutela giuridica (sino all'art. 18) dando mano libera ai licenziamenti collettivi. Si sono colpiti salari e pensioni e si è praticamente azzerata l'efficacia dei contratti nazionali. L'epifania dell'«operaio jolly», che manda in sollucchero tanti «autorevoli opinionisti», è l'emblema di questo processo: nella piena liquidità del lavoro vivo - costretto a svolgere qualsiasi mansione - si realizza finalmente quella riduzione del lavoratore a pura energia produttiva (forza-lavoro) che indusse Marx a scorgere nella astrattizzazione del lavoro il cuore del modo di produzione capitalistico.
Ma se l'americanismo - l'identificazione tra società e mercato e la subordinazione totale del lavoro dipendente - definisce il versante oggettivo dell'azione del governo Monti, non bisogna trascurare gli aspetti soggettivi che hanno caratterizzato la vicenda politica di questi tredici mesi. L'arrivo del professore col loden aveva destato, anche a sinistra, le speranze di chi usciva disgustato dalla fiera della volgarità capitanata dal capo-clan della destra. Per lunghi mesi l'aplomb del sedicente tecnico ha abbagliato milioni di italiani, complice la grancassa mediatica dei guardiani del rigore e della responsabilità. Dopo tanto spreco di ideologia e di banalità, sarebbe ora di dirsi la verità, a questo punto, anche sulle persone che dal governo ci hanno afflitto con la loro saccente prosopopea degna di miglior causa.
Non lasciamoci fuorviare però dalle apparenze. La grottesca propensione all'autoelogio dei tecnici e, primo fra tutti, del presidente del consiglio («abbiamo fatto il possibile», «abbiamo salvato il paese dal baratro», «abbiamo pacificato il paese» e via sobriamente imbrodandosi) è indubbiamente irritante, al pari dell'egocentrismo di chi prima fissa gli obiettivi del governo in base all'entità che lo spread aveva quando lui è entrato a palazzo Chigi, poi pianta tutti in asso non appena si accorge che è stato scaricato. Ma non è questo il punto. Ciò che deve fare riflettere è l'imperturbabilità di questa gente, che ha scardinato le vite di milioni di persone senza battere ciglio. Anzi, con la sicumera di chi - certo del fatto suo e della propria buona coscienza (Monti ci ha pure rassicurato sulla serenità delle sue notti) - non sente ragioni, letteralmente. Perché non vede la sofferenza di una società scaraventata nell'indigenza e nella paura.
Non sentire, essere sordi: di vera e propria sordità si tratta, infatti. Di quella perversa sordità morale che contraddistingue la mente teoretica del fondamentalista identificato con le proprie credenze. Nella fattispecie, con i dogmi del neoliberismo, invano contraddetti da ogni sorta di evidenza empirica.
Ciò che la satira ha subito colto (il «rigor Montis» di Grillo, il Monti-automa di Crozza) non è soltanto un tratto del comportamento, è anche lo specchio di uno sguardo sulla realtà. Freddo, distante al limite dell'indifferenza. E non è solo un aspetto del carattere, ma anche il riflesso di una prospettiva. Acritica perché impermeabile al dubbio. E tanto più violentemente imposta, in quanto sostenuta dallo spirito del tempo. Il bocconismo non è oggi soltanto una posizione, sia pur maggioritaria. È (nel senso che così viene affermato e perlopiù percepito) la «cosa stessa»: il discorso della realtà su se stessa, il suo inconfutabile autorappresentarsi. Se il bocconismo, che Monti incarna nelle sue stesse professorali movenze, stabilisce che il bene del paese sta nelle «riforme» che tagliano, negano ed escludono, allora non c'è disagio sociale che tenga. Ogni dolore è a priori ridotto a effetto collaterale di misure per definizione progressive. A quantità trascurabile.
Così stando le cose, la questione riguarda il segno che Monti lascerà anche dopo avere abbandonato il governo politico del paese. Il segno materiale, scritto nella sorte degli esodati e degli scoraggiati, dei senza-lavoro e dei senza-reddito, degli studenti senza-futuro di scuole e università pubbliche stremate, dei pignorati e dei pensionati costretti a rubare dai banchi dei discount. E, non di meno, il segno morale, che suggella l'americanizzazione del paese, il passaggio a ovest che fa finalmente dell'Italia un «paese normale». Non solo iniquità, come da tempo immemore. Non solo ostentazione dell'iniquità, come ai tempi del Cavaliere. Ma anche buona coscienza, soddisfatta di sé, al cospetto di iniquità concepite come fatalità. Da questo punto di vista la favola della discontinuità che il governo tecnico avrebbe introdotto nella politica italiana rivela tutta la sua inconsistenza. In realtà il montismo altro non è che la «verità» del berlusconismo: il suo esito e la sua piena maturità. Questo la sinistra dovrebbe intendere. E dedurne la necessità di riunire finalmente tutte le forze avverse all'«agenda Monti», nella consapevolezza che, lungi dall'estinguersi con la fine della legislatura, il montismo sarà l'asse portante del prossimo governo, si trattasse pure della santa alleanza tra moderati e progressisti.
Il Manifesto - 14.12.12