di Daniela Preziosi
«Io qui mi sento a casa. Ci sono alcune differenze fra noi ma dobbiamo fare uno sforzo di sintesi e intraprendere un percorso comune. Sappiamo bene che con il Pd ci sono forti divergenze. Per esempio, noi stiamo con i No Tav. Ma il confronto non ci sporca». Al Teatro Quirino, all'assemblea di Cambiare si può (una delle tre gambe della futura lista civica, le altre due sono gli arancioni di De Magistris e i partiti) Antonio Ingroia spiega con queste parole la richiesta pubblica di un incontro con Bersani. C'è chi giura che è fissato un appuntamento per la prossima settimana. E a questa platea l'idea non piace affatto.
Ma il problema si chiude a stretto giro. Quando, dopo pochi minuti, Stefano Fassina, interrogato dalle agenzie, chiude il confronto: le posizioni di Ingroia sulla vicenda che ha coinvolto il presidente della Repubblica «non sono condivisibili», dice il responsabile economico Pd, vicinissimo a Bersani, «e poi non abbiamo capito sul terreno economico-sociale cosa propone. E non facciamo alleanze che non abbiano un forte grado di omogeneità rispetto agli impegni che vogliamo mantenere con l'Europa e a livello internazionale. Mi pare quindi complicato che questo rapporto si possa costruire. L'alleanza progressista deve avere un profilo di credibilità che non è compatibile con l'offerta politica che Ingroia rappresenta». Più sfumato Nichi Vendola: un dialogo con Ingroia «lo auspico, se Bersani aprirà questa porta o finestra farà bene» ma «non ho vinto le primarie, quindi a Bersani non intendo tirare la giacca».
Capitolo chiuso, quello della possibile alleanza fra arancioni e centrosinistra? A ieri sì. Eppure Diliberto, dal suo comitato centrale - che ha un ospite speciale, proprio Ingroia - ancora lancia ponti: «Lavoreremo nella direzione del dialogo con il centrosinistra. Mi auguro che non ci siano pregiudiziali sui temi della legalità». Le diplomazie sono ancora al lavoro, giurano i suoi.
Superato questo scoglio, almeno per ora, all'assemblea del Quirino si discute dei contenuti del manifesto di Ingroia (considerati deboli, soprattutto sul fronte del no al fiscal compact e ai trattati europei). Soprattutto si litiga sul rapporto con i partiti. «Ai politici ho chiesto un passo 'incontro'. L'idea è costituire una lista che sia sintesi tra società civile e quella parte di politica e di partiti che dentro e fuori si sono battuti contro il berlusconismo e montismo», dice il magistrato. De Magistris interviene subito dopo: «Con Ingroia ci saranno cittadine e cittadini con la schiena dritta che hanno lottato a difesa dei diritti civili e sociali e a difesa dei territori, insieme a tutti quei militanti dei partiti che hanno contrastato le politiche liberiste di Monti». Paolo Ferrero, che stavolta parla - ad altre assemblee aveva rispettato l'invito a non farlo - snocciola il Prc Pride, la difesa orgogliosa delle battaglie dei suoi: «È sbagliato pensare che un partito sia autosufficiente. Ma anche il contrario. Impariamo dall'America latina. Valorizziamo tutto quello che c'è. Non vogliamo fare la sommatoria dei partiti, ma attenti, senza partiti questa lista non si riesce a fare». La replica di Paul Ginsborg è dura: «Io ci sto. Ma dobbiamo definire le regole della partecipazione e delle liste. Non ci sto a rivivere le assemblee turbate da uno spirito un po' fottente», dice proprio così, e conclude: «Cari militanti dei partiti, forse non avete sempre ragione».
La discussione è seria e bella, cruciale in una sinistra piena di ex qualcosa delusi e cani sciolti. C'è anche un simbolo: campo arancione, «Rivoluzione civile», e due mani che incrociano le dita con segno di vittoria. Ma è l'ultimo dei problemi, per ora. Si va avanti tutto il pomeriggio. Anche perché Ingroia aspetta, lo dice lui stesso, «il deliberato di quest'assemblea». Un'assemblea che però è abituata non dare niente per scontato. E infatti viene messo al voto, ma poi battuto, anche un emendamento che chiede una ridiscussione collettiva sulla premiership. Il confronto è teso, le diffidenze fra «civici» e «partiti» si sentono, la democrazia radicale che ci si è imposti è un esercizio complesso. La presenza del Prc è massiccia e si fa sentire.
Ma alla fine il «deliberato» arriva. Il sì a Ingroia c'è, ma toccherà a un comitato di gestione verificare i contenuti programmatici della lista unitaria. E all'ex magistrato Livio Pepino e al sociologo Marco Revelli toccherà il compito di consultarsi con i vari soggetti invitati a schierarsi da Ingroia (fra gli altri Landini della Fiom, Libera di don Ciotti, Art.21, Se non ora quando, Michele Santoro, «giornalisti del Fatto»). Poi si torna nelle assemblee territoriali, e infine partirà la «vidimazione online» con tutti i firmatari nell'appello (con iscrizioni aperte fino al momento del voto).
In sostanza, toccherà a Ingroia sciogliere il nodo del rapporto fra nomi della società civile e partiti. E non sarà un pranzo di gala. Idv e Pdci si dichiarano pronti al famoso «passo indietro» e a rottamare le insegne di partito. Ma è escluso che Di Pietro non si candidi: perché mai non dovrebbe?, dice chi gli sta vicino, visto che saranno in prevalenza i «soggetti organizzati» a raccogliere le firme per la lista, nelle prime due settimane di gennaio. Sempreché naturalmente, Ingroia accetti la candidatura e decida di prendere un aereo per il Guatemala per fare le valigie e tornare definitivamente in Italia. De Magistris invita tutti a darsi una mossa: «Se non ci siete voi non può esistere la coalizione. Tra due mesi si vota e ci sono ancora troppi 'se': Ingroia resti qua. Le valigie se le faccia spedire da qualcun altro».
da il manifesto