Galapagos
«Non basta», ha dichiarato Jean-Claude Junker presidente dell'Eurogruppo. E ha chiesto che il governo greco si impegni per un ulteriore taglio di 325 milioni di euro del deficit del 2012. Insomma, se non ci sarà questo ulteriore sacrificio non sarà concesso a Atene il nuovo prestito di 130 miliardi. Eppure il governo greco aveva approvato (il parlamento lo voterà domani) un nuovo piano (da 3,3 miliardi) che prevedeva tra l'altro una riduzione del 22% del salario minimo (a 586 euro al mese) e il licenziamenti di 150 mila dipendenti pubblici entro il 2015 dei quali 15mila già quest'anno. E inoltre 50 miliardi di privatizzazioni, minori investimenti pubblici e perfino 600 milioni di tagli alla difesa. Ovviamente in aggiunta alle manovre già varate nel 2009, nel 2010 e nel 2011 che hanno distrutto il paese.
Come risultato di queste manovre recessive il tasso di disoccupazione è salito a oltre il 20% e - secondo Eurostat - già nel 2010 il 27,7% della popolazione era a rischio di povertà o esclusione sociale e per la fine dell'anno la percentuale salirà a oltre il 30%. Le manovre «canaglia» imposte alla Grecia dall'Europa e dal Fondo monetario non sono per ora riuscite a modificare la crisi fiscale di Atene, ma hanno contribuito solo a frenare la crescita: nel triennio 2010-2012 il Pil diminuirà segnando una caduta superiore al 12% senza che i conti pubblici siano stati risanati. Basti pensare che i nuovi obiettivi prevedono una diminuzione del rapporto Debito/Pil dall'attuale 160% al 120%, ma solo nel 2020. D'altra parte se un paese non cresce è impossibile il risanamento dei conti pubblici.
E tutto questo perché?
A maggior gloria del sistema bancario e dell'euro nell'egoismo dei paesi europei. Non è un caso che dal 4 ottobre 2009 quando Papandreou vince le elezioni anticipate e comincia a scoprire la bancarotta fraudolenta del precedente governo conservatore, è iniziata la guerra contro la Grecia. Prima il paese è stato tradito dagli stessi greci con una massiccia fuga di capitali all'estero frutto del disinvestimento dei titoli del debito pubblico. Poi è stata la volta del sistema bancario internazionale a mettere sotto tiro il debito pubblico, peraltro non enorme, visto che è circa un sesto di quello italiano.
Sarebbe stato possibile - all'inizio del 2010 - salvare la Grecia con costi notevolmente minori, ma non lo si è fatto. A non volerlo è stata soprattutto la Germania che per mesi ha ostinatamente rifiutato ogni aiuto, condizionandolo poi a enormi manovre correttive varate da Papandreou. Quando nel maggio del 2010 fu accordata la prima linea di credito era evidente che sarebbe stata insufficiente: le correzioni dei conti stavano stravolgendo il tessuto produttivo e sociale del paese. L'impressione - anzi la certezza - è che si volesse «colpire uno per insegnare a cento». Non è infatti possibile credere che nessuno avesse capito la mostruosità di quanto si stava chiedendo alla Grecia.
L'importante, però, era dare l'esempio, spingere i salari sempre più in basso, cancellare i diritti acquisiti e più in generale cancellare tutti i diritti, a cominciare da quelli dei lavoratori, depredando al tempo stesso il paese dei suoi beni pubblici con massicce privatizzazioni. Di più: quando Papandreou minacciò strumentalmenete (e forse senza un a vera volontà di farlo) di ricorrere a un referendum consultivo per chiedere ai cittadini se erano d'accordo con i sacrifici e quindi con la permanenza del paese nell'euro, fu subito stoppato dall'Europa. Insomma, dopo lo scippo dei beni archeologici e dell'economia, la Grecia ha subìto anche quello della democrazia. Ora Atene è a terra, ma all'Europa - come dimostra la pretesa di Junker - ancora non basta. Sarebbe il caso che la Grecia, con un gesto di orgoglio e di indipendenza, dicesse basta all'Europa e soprattutto all'euro.