Intervista a Paolo Ferrero
di Marco Palombi
Questa non è una crisi di scarsità, ma di redistribuzione e dunque l’unica via d’uscita è il comunismo, vale a dire una radicale redistribuzione della ricchezza e del lavoro con in più un intervento dello Stato, gestito ovviamente in modo democratico, che avvii la riconversione ambientale dell’economia. Paolo Ferrero, segretario del Prc, non abbandona il caro vecchio Marx (“siamo sempre lì: il superamento del lavoro salariato e la preservazione della natura”), seppure tirato a lucido con aggiornamenti keynesiani e una recente sensibilità ecologista. Eppure, è la domanda, come s’arriva dentro al palazzo d’Inverno nel 2012, anno dei bocconiani? Forse è il vecchio tatticismo elettorale bolscevico, ma la risposta di Ferrero è con “una coalizione dell’alternativa e della sinistra” che vada da Antonio Di Pietro (l’alternativa) ai movimenti per i beni comuni, al sindacato all’associazionismo fino ai vendoliani pentiti (la sinistra). Il punto d’arrivo è, al solito, chiudere la diaspora post-comunista: una lista unica, una sorta di Front de Gauche italiano (quello francese viaggia al 7% circa).
Questione preliminare: ma servono ancora i comunisti?
Veramente, dentro questa crisi e in particolare con l’arrivo di Monti, la gente ha ricominciato davvero a capire a cosa serviamo. Prima sembrava che il problema fosse solo sconfiggere Berlusconi, ora è chiaro che è sconfiggere quelle politiche economiche. E attenzione: a livello di politiche economiche, centrosinistra e centrodestra sono più o meno la stessa cosa.
Quindi Vendola che s’allea col Pd…
Secondo me fa un errore enorme e si condanna all’impotenza: spero ancora che ci ripensi.
Eppure Diliberto, con cui lei è l’alleato nella Federazione della Sinistra, dice che bisogna rifare il centrosinistra senza l’Udc.
Ne stiamo discutendo, ma mi pare che il suicidio della sinistra radicale nel governo Prodi ce l’abbia già insegnato: non è bastato avere un buon programma, perché poi i rapporti di forza erano tutti sbilanciati verso chi tirava verso destra.
Niente Bersani, allora.
Guardi il punto è un altro. Monti non è una parentesi nella storia italiana, ma un fatto costituente: è l’uscita da destra dalla crisi della Seconda Repubblica. Monti non finisce con Monti, perché lui ha stabilito i binari su cui correremo nei prossimi vent’anni. Fiscal compact, riforma del lavoro, pareggio di bilancio: se non togli questo, sei sul suo treno, puoi sporgerti dal finestrino di destra o da quello di sinistra, ma la direzione è una sola. Un governo col Pd vuol dire continuare, più o meno, l’esperienza di Monti.
E lei l’alternativa comunista vuole farla con Di Pietro.
So bene che l’Italia dei Valori non è un partito di sinistra, ma abbiamo in comune almeno due cose decisamente rilevanti: Idv fa opposizione da sinistra al governo Monti e s’è dimostrata critica sulle politiche imposte dalla Ue come testimonia il voto negativo sul Fiscal compact in Parlamento. Anzi, ce n’è una terza…
Quale?
Noi siamo già andati insieme alle elezioni e abbiamo pure vinto contro l’alleanza Sel-Pd: è successo a Napoli e a Palermo. Possiamo portare quel modello a livello nazionale: a Di Pietro dico che da soli siamo solo una serie di persone che si lamentano…
E insieme?
Facciamo una proposta di governo che non si limiti al vaffa.
Va bene: vincete e poi che fate?
La prima cosa da fare è andare in Europa e dire che il Fiscal compact non si applica e che tutto va ridiscusso.
Lo dica: lei vuole uscire dall’euro.
No, sarebbe un dramma che finirebbe tutto sulle spalle dei lavoratori. L’Italia non è la Val d’Aosta, è un grande paese e se vuole pesare in Europa pesa. Il problema è che Monti, alla fine, è d’accordo con Merkel sulle politiche di austerità e l’attacco ai diritti dei lavoratori.
In attesa di conquistare Palazzo Chigi, a settembre fate l’ennesimo corteo contro il governo: sa un po’ troppo di Novecento, non crede?
I cortei servono, come serve il computer. Quando diciamo ‘facciamo una manifestazione’, diciamo in sostanza che non vogliamo aggregare tifosi, non vogliamo gente che vive di delega del potere e vuole esprimersi solo votando per questo o quell’altro. Persone che abbiano voglia di partecipare a un percorso che si basi su soggettività e fiducia in se stessi. Sa qual è il peggior lascito di Berlusconi?
Gianni Letta?
No, è il senso di impotenza, il pensare che non si conta niente, non si può fare niente: la diffusione della categoria dello sfigato è l’unica sua vera invenzione (contro)rivoluzionaria.
Il fatto quotidiano, 4 agosto 2012, pag. 6