di Roberto D'Andrea
La presentazione del disegno di legge sul mercato del lavoro ha chiarito che non solo lo scambio era inaccettabile, ma che questo non sussiste. Vengono smontate le tutele contro i licenziamenti ingiustificati attraverso l'indebolimento dell'articolo 18. Diminuiscono gli ammortizzatori sociali per chi è dipendente, e si continuano ad escludere i precari.
Si lascia intatta la precarietà introdotta con la legge 30.
E' così che viene coronato il percorso di destrutturazione dei diritti e delle tutele dei lavoratori, percorso iniziato a metà degli anni 90 dai governi di Centrosinistra, portato avanti in maniera decisa e aggressiva dalla Destra e concluso da un governo bipartisan che di tecnico ha solo la facciata.
Negli ultimi 20 anni, si sono dapprima introdotte nuove forme di lavoro a termine, parzialmente tutelate (come l'interinale prima maniera introdotto dalla Treu nel 96),
poi si è data mano libera alle imprese per ricorrere alle forme di lavoro atipico per qualsiasi ragione tecnico-produttiva (con la legge 30).
Rendendo possibile, quindi, l'inserimento progressivo nelle aziende di lavoratori precari in un numero sempre maggiore, e -per questa via- finendo per indebolire anche i lavoratori più stabili. Infine, con la riforma Fornero, si vuole definitivamente smantellare quel mondo del lavoro che fino ad oggi abbiamo conosciuto: vogliono rendere liberamente licenziabili i lavoratori fino ad oggi stabili, per sostituirli magari, con altri privi di diritti, più ricattabili e meno costosi.
E il Governo torna indietro persino su quelle tipologie maggiormente precarizzanti,
che in un primo momento erano state eliminate, ripristinando addirittura contratti truffa come l'associazione in partecipazione.
Sebbene permangano alcune positive restrizioni sui contratti a progetto,
si lasciano tutte le altre forme sulle quali effettuare il “travaso”.
Resteranno tutte le 46 forme di lavoro, comprese le meno costose, ed in più con l'aumento dei contributi previdenziali (e senza l'aggancio dei minimi retributivi al contratto nazionale) assisteremo a ulteriori progressive diminuzioni di reddito, o ad un turn-over esasperato
(è questo il caso delle partite iva).
La diminuzione complessiva dei salari, dei diritti e delle tutele indebolisce oggi tutti i lavoratori, dipendenti o atipici. Inoltre la neutralizzazione dell’art. 18 significa non solo toglierlo a chi oggi ce l’ha, ma negarlo definitivamente a chi domani avrebbe potuto averlo. L’eliminazione del potere deterrente della reintegra, sommata alla conservazione di forme contrattuali meno costose, determinerà un processo di progressiva “rottamazione” dei lavoratori oggi presenti nelle realtà produttive, con la conseguente sostituzione (magari nelle stesse postazioni) con lavoratori più “convenienti” dal punto di vista economico. In questo modo la prospettiva di un periodo di licenziamenti di massa sarà probabile: questa rischierà di essere la nostra grecizzazione.
Ma per i precari l’art. 18 non va considerato solo come una speranza per il futuro.
Abbiamo utilizzato l'art.18, in questi anni, anche per combattere la precarietà: come strumento a disposizione del sindacato per ripristinare i diritti negati al lavoratore attraverso l’uso improprio dei contratti “atipici”.
Nella lotta contro il ricorso a forme improprie di lavoro atipico usato come sostituzione di lavoro dipendente, abbiamo usato la minaccia – o l’azione – giurisdizionale: impugnando la legittimità stessa dei contratti precari, ottenendo così da un lato la trasformazione dei rapporti di lavoro e dall’altro – attraverso la contestazione del licenziamento illeggittimo– la successiva reintegra nell’azienda.
Infatti una volta che un contratto di lavoro autonomo viene giudicato falso, esso viene convertito dal giudice in un contratto di natura dipendente a tempo indeterminato, e la scadenza viene considerata alla stregua del licenziamento: a questo punto l’art. 18 impone la reintegra. Senza addentrarmi nei meccanismi giuridici l’estromissione del lavoratore precario viene fino ad oggi considerata come un licenziamento illegittimo.
L’art. 18 quindi è servito fino ad oggi anche ai precari.
Negli ultimi decenni si sono progressivamente sommati provvedimenti e norme che hanno spezzettato il mondo del lavoro e reso più difficile per i lavoratori tutelarsi dentro e fuori il rapporto di lavoro. Oggi con la riforma Fornero si rende impossibile anche per i precari far valere i propri diritti: non solo perché non si cancellano le norme vessatorie del collegato lavoro, che rendono + difficili le cause di lavoro, ma perché a quelle norme si somma la cancellazione dell’art. 18.
In questi anni il sindacato ha contribuito a produrre avanzamenti della giurisprudenza utili alla tutela dei lavoratori (esemplari le cause sull’associazione in partecipazione nel commercio), e utili soprattutto al rafforzamento della forza negoziale del sindacato stesso nelle trattative.
I numerosi casi di percorsi di stabilizzazione -avviati anche nel difficile contesto degli ultimi anni- dimostrano che non soltanto si dovrebbe, ma che è stato concretamente possibile rappresentare, organizzare e difendere i precari. Oggi tutto questo è messo in discussione dal governo “tecnico” di Monti.
La reintegra non è quindi uno strumento che garantisce pochi dipendenti a discapito dei tanti precari. Nemmeno in questo caso è sostenibile la retorica della divisione fra padri e figli, fra garantiti e non garantiti, fra vecchi e giovani. Con questa riforma del mercato del lavoro tutti i lavoratori saranno più deboli, usati come merce, gettati quando non servono più all’azienda.
L’art. 18 quindi è un patrimonio di tutti e da tutti va difeso.
Si sta rendendo sempre più palese che scontiamo lo scollamento fra gli interessi dei lavoratori e la loro rappresentanza politica nelle istituzioni.
Ne ha la responsabilità chi, in questi anni, ha perseguito il mito dell'equidistanza fra capitale e lavoro.
E in più, quando questa equidistanza fa media con un governo sostenuto da forze di centro e di destra, il frutto è il peggioramento delle condizioni dei lavoratori.
La rinuncia della politica ad esprimere una proposta diversa, si sta tramutando con il Governo Monti nel mero ed ossequioso rispetto dei dettati dell'economia della finanza.
E la scusa della crescita non regge. Sacrificare i lavoratori, fare un servizio alle imprese per far ripartire l'economia è una bufala: già oggi le nostre condizioni sono bassissime. Tant'è che Ikea, pochi giorni fa, dichiarava che sta delocalizzando in Italia perchè nel nostro Paese i salari sono da tempo fermi al palo, mentre in Oriente tendono a crescere.
E non è credibile nemmeno la favola che le imprese non investono in Italia a causa delle rigidità. Sono anni ormai che possono fare ciò che vogliono.
E allora cosa occorre?
Occorre resistere. E passare al contrattacco. Non solo per salvare l'idea che non ci ci può rassegnare, che è possibile opporsi, ma per cambiare le cose!
Per affermare che la riforma del lavoro fatta da un Governo che nessuno ha votato non è un dogma che accettiamo in silenzio. Occorre proseguire gli scioperi e le mobilitazioni per rivendicare misure più incisive contro la precarietà.
Serve costruire, insieme, un futuro in cui vengano estesi diritti e certezze.
Roberto D'Andrea - Segretario nazionale NIdiL-CGIL