di Alfonso Gianni
Quando Bersani all'inizio dell'estate disse che spettava a lui unire il campo dei progressisti e dei democratici, mentre affidava a Casini il compito di raccogliere i moderati, apparvero ben chiare tre cose. La prima era che il Pd si poneva saldamente al comando di uno schieramento fortemente contrassegnato dal suo pensiero politico, più che di una coalizione di forze diverse e con pari dignità. La qual cosa è poi effettivamente avvenuta, al punto che la "Carta di Intenti" è assai simile a quella originale del Pd e il nome sinistra è scomparso persino nella sua accezione più lieve, quella che si accompagna a "centro", separata dal solo trattino. Infatti la "Carta di Intenti" parla solo di progressisti e democratici.
La seconda è che l'intesa con Casini sarebbe avvenuta dopo la prova elettorale, a meno che ragioni di convenienza dettate da una legge elettorale ancora di là da venire non suggerissero altre soluzioni.
La terza, di gran lunga la più importante, è che rimaneva senza risposta una domanda implicita: chi rappresenta e organizza la sinistra?
Il documento di cui sono primi firmatari Gallino e Revelli più che dare risposte rilancia questa domanda. Questo è il suo principale valore e pregio. Lo fa sulla base della analisi della crisi economica, politica, civile e istituzionale cui è giunto il nostro paese, succube delle decisione prese dagli organi a-democratici della Ue. Tale condizione è stata aggravata dal governo Monti, con il pieno appoggio del Partito democratico, in particolare con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio e la ratifica del fiscal compact. In nessun modo quindi il governo Monti può essere inteso come una parentesi, né la sua continuità può essere spezzata non nominandolo, poiché esso è stato piuttosto un governo costituente di un nuovo quadro politico nel nostro paese e della formazione di una governance europea marcatamente autoritaria.
Sento da varie parti, e con diverse argomentazioni, dire che in fondo il fiscal compact, proprio per la sua eccessiva rigidità non verrà applicato. Si porta l'esempio dell'aggiramento del patto di stabilità e crescita, del vincolo del 3% da parte di Germania e Francia: ma si dimentica il fatto che i vincoli di Maastricht sono stati bypassati solo da coloro o con il beneplacito di chi li ha imposti, cioè dai paesi più forti. A quelli più deboli è stato solo concessa la possibilità di implorare dilazioni. Il caso della Grecia parla chiaro: 153 deputati hanno approvato le nuove misure di austerità, mentre per le vie d'Atene si fronteggiavano violentemente polizia e manifestanti. La maggioranza necessaria è 151. Siamo all'ultima chiamata. Se quella esile maggioranza sparisse o se la sollevazione popolare avesse la meglio, la Grecia sarebbe fuori dall'Europa. A seguirla sarebbero nel breve tempo gli altri Pigs. L'Europa, in altre parole, imploderebbe. Sono proprio le misure del rigore che la stanno uccidendo. Persino il Fmi e la Banca mondiale nell'ultima riunione del 12 Ottobre a Tokio hanno cominciato a porre in dubbio la validità di tali politiche. Invece da noi la Fornero pensa addirittura di cancellare quella pallida forma di indicizzazione dei salari che è l'aggancio ai prezzi europei, tranne gli energetici, contenuta nei contratti nazionali di lavoro!
Queste tematiche sono state al centro dell'ultimo incontro dei movimenti a Firenze conclusosi domenica scorsa. La ragione per cui il documento finale è così arido non può essere nascosta. Anche a quel livello sono emerse diverse letture della drammaticità della crisi. In particolare è risultata evidente la sottovalutazione da parte dei movimenti del Nord Europa del problema della lotta al fiscal compact , agendo in paesi ove il rapporto debito/Pil non è così drammatico, e anche la loro non condivisione del tema dell'unità fiscale che porta alla mutualizzazione del debito. Non si può dunque abdicare al ruolo di una sinistra politica in Europa in favore dei movimenti, né al contempo costruirla prescindendo da questi.
Se non si vuole l'implosione dell'Europa e allo stesso tempo l'immiserimento dei paesi periferici, bisogna che una sinistra che aspiri a governare ponga al primo punto la ridiscussione dei trattati europei e costruisca su questa base un alleanza con i paesi in difficoltà e con la Francia di Hollande - che da quando ha accettato il fiscal compact ha ridimensionato di molto il suo programma di riforme - per opporsi all'egemonismo tedesco. Modificare i rapporti di forza in Europa vuole precisamente dire questo. Se si vuole costruire un fronte contro la finanza internazionale che comprenda anche quel capitale non completamente inglobato in essa e che investe nella produzione (tema proposto su queste pagine da Di Siena) bisogna che esista chi rappresenta politicamente il lavoro.
La carta di intenti dichiara invece fedeltà ai trattati e alle scelte del premier che verrà in difesa dell'Euro. In quel quadro la sinistra non ha voce. Né ci si può semplicemente, in un quadro socialmente così drammatico, aggrapparsi alla speranza che Nichi Vendola vinca le primarie e rovesci da solo la situazione. C'è bisogno di una forza di sinistra autonoma, plurale e inclusiva fondata sulla valorizzazione del lavoro nella sua più ampia accezione - come in effetti era il disegno originario di Sel, che invece è venuto poi declinando in tattiche elettorali - che porti avanti una politica di discontinuità con il montismo con estrema decisione. Questo è il problema principale, al di là dei tempi stretti del passaggio elettorale del 2013, su cui bisognerà tornare tra poco, quando saranno chiare le regole del gioco.
Il Manifesto - 14.11.12