di Paolo Valentini :: Intervista a Piero Bevilacqua, economista

Arrivati a fine anno, ancora una volta è il lavoro che manca a preoccupare. Ci spiega cosa è accaduto in questi anni?
È in atto a livello internazionale una pressione formidabile sul lavoro, sulla fabbrica e nei servizi; accade in Europa e negli Stati Uniti, per non parlare di quello che avviene in Cina. «È una lotta di classe dopo la lotta di classe» come l’ha chiamata Luciano Gallino. Ma attenzione: l'attacco ai diritti del lavoro non è di oggi ma si è sviluppato e concretizzato prima della crisi attuale.


I lavoratori americani lavoravano due mesi in più rispetto ai lavoratori europei. Nel paese dove si lavorava quarantaore settimanali si sta tornando indietro. È un segnale su cui i teorici e gli economisti dovrebbero riflettere. Negli Stati Uniti si è invertita una tendenza storica secolare. Il binomio crescita e diminuzione dell’orario di lavoro è venuto meno. Prima, a inizio Ottocento, la vita del lavoratore veniva interamente sequestrata. Poi cominciano le regolamentazioni nelle fabbriche inglesi.
Da allora è stato un susseguirsi di lotte per la riduzione dell’orario. Il conflitto operaio per la riduzione ha costretto il capitale all’innovazione tecnologica.
Questo è stato il meccanismo conflittuale virtuoso che ha fatto del capitalismo una macchina progressista. Il capitalismo si è migliorato e ha dato vita a una società che trasformava la ricchezza prodotta in fabbrica, in servizi e incremento degli spazi democratici. Nel paese che è stato avanguardia di questo capitalismo si è tornati indietro. Qualcosa di grave è accaduto.
Vuol dire che il capitalismo non crea più migliori condizioni di vita ed è in una fasedi regressione storica. Questo meccanismo si è esteso a tutta l’Europa. Cosa chiede il capitalismo in Europa? Proprio l'allungamento dell'orario di lavoro e maggiore flessibilità. L’articolo 8 della riforma lasciata in eredità da Tremonti e Sacconi prevede dei contratti che derogano ai contratti nazionali; l’operaio potrebbe essere costretto ad accettare l'allungamento del proprio orario lavoro fino a 60-65 ore. È palese come la crisi costituisca un’occasione per far indietreggiare le condizioni del lavoratore.

Il capitalismo, o meglio gruppi e forze dietro di esso, cavalcano la crisi, quindi?
Il capitalismo a causa del crollo del comunismo e all'indebolimento dei sindacati senza una vera e reale opposizione porta se stesso a una forma di evidente cecità. La competizione tra capitalismi indebolisce la forza lavoro anche se dimentica che i consumatori sono i protagonisti del consumo delle merci. Oggi viviamo una situazione paradossale: abbiamo una potenza produttiva incredibile a cui corrisponde una stagnazione dei salari, un allungamento dell'orario di lavoro, la riduzione del welfare, del salario differito (come si chiamava una volta) fornito dai servizi. In questi anni i ceti operai e la classe media hanno visto sia la stagnazione sia l’aumento dei costi.

E poi cosa è successo?
Si sono lasciate indebitare le famiglie. Gli Stati Uniti rappresentavano la locomotiva perché i consumi, nell'espressione consueta degli esperti, “tirano ”; il punto è che hanno continuato a consumare indebitandosi attraverso una pubblicità ossessiva che non consentiva di farne a meno. Questo miracolo è stato possibile grazie ai mutui e alle carte di credito. L'indebitamento delle famiglie è esploso. A un certo punto sotto questa montagna di acquisti c’era l’indebitamento. Il marcio di questo meccanismo ora lo stiamo vedendo sotto i nostri occhi.

I nostri occhi vedono un cambiamento radicale nei rapporti di forza, come si diceva una volta?
L’articolo 8 vuole derogare dai contratti nazionali di lavoro e prevede un controllo sempre più serrato. Permetterebbe all'imprenditore, all’interno della fabbrica, di controllare tutte le attività e lo spostamento dei lavoratori. Un grande fratello che ti guarda. Il lavoratore si deve sentire osservato tutto il giorno. Può accadere che per ragioni di ristrutturazione interna diventi un lavoratore generico, può diventare un contratto a progetto. Da un lavoro stabile si degrada a un lavoro precario, senza i vantaggi di un rapporto stabile.
L’orario può arrivare a 65 ore ma può anche scendere a venti se l’organizzazione dell ’azienda lo prevede. Si può vedere da queste norme che i lavoratori diventano delle cose. Questa è l’estrema barbarie e favorisce la decomposizione societaria. Gli uomini non contano nulla, sono spostabili, licenziabili. Queste logiche dettate dalle necessità di profitto, deformano la spiritualità di un’epoca. È una metastasi distruttiva in cui la dignità umana non conta più nulla. Questo porta a una crisi che nasce dal profondo squilibrio mondiale della redistribuzione della ricchezza. In mani finanziarie e non solo è accresciuta visibilmente mentre la grande massa dei consumatori non ha visto crescere la propria capacità di consumo.

Avremmo dovuto ribellarci! E invece siamo stati ricattati
Il ragionamento ricattatorio più in voga è questo: c'è la competizione mondiale e noi non possiamo perdere il treno della competizione. Queste sono le mie risposte a tale provocazione: competere moltiplicando il lavoro è perdente. Lo sviluppo è stato accompagnato dal welfare, ad un'economia sociale di mercato. La competizione è avvenuta conservando i diritti e migliorando la vita e l’intelligenza collettiva.
Siamo indietreggiati sul piano della ricerca scientifica. Se non diamo uno sbocco ai nostri laureati e ai nostri ricercatori che non sanno dove sbattere la testa in Italia... Ricerca e creatività costituiscono una via per innovare senza dover gareggiare con Cina e India sul terreno della forza lavoro. Inoltre, la globalizzazione è cresciuta sotto il segno dell’ideologia neoliberista.
Il capitalismo ha realizzato un grandioso disegno. Ha trasferito le imprese dove la manodopera era indifesa e senza tutele. In questo modo i capitalisti hanno incrementato i loro profitti e hanno avuto un enorme vantaggio. La delocalizzazione ha permesso di tiranneggiare la classe operaia dei paesi d’origine. «Se non vi sta bene questo contratto io sposto l’i mpresa altrove». Questo ha dato all’i mprenditoria una capacità contrattuale forte e schiacciante. Anche lo spostamento economico sovranazionale ha creato un potere enorme. È stato creato da Reagan, ma anche da Mitterand dando al capitalismo finanziario un potere che tiranneggia.

La globalizzazione però è un dato di fatto ormai?
Io da marxiano so benissimo che lo scenario è mondiale. Ho sempre creduto che l’aspirazione dell’umanità è il cosmopolitismo.
Sono contrario alle chiusure nazionali e nazionalistiche e favorevole all’Europa sognata dai padri fondatori e accresciuta da contenuti sociali (non questa Europa, certo). Nell’attuale fase storica si può fare molto. Perché non si punta a creare degli standard minimi di regolamentazione dell’orario massimo, di salario minimo uguale per tutti? Mi rendo conto delle difficoltà tecniche, ma costituirebbe una forma diversa di globalizzazione.
Il lavoro rimane inchiodato a forme di sfruttamento becere mentre alle merci è consentita qualsiasi cosa. Non è accettabile. Questi nostri governanti si riempiono la bocca di globalizzazione ma non fanno nessun minimo sforzo per proteggere il lavoro. Può sembrare paradossale ma nonostante il lavoro di fabbrica sia diminuito (almeno in Europa), il lavoro d’ufficio somiglia sempre di più al lavoro di fabbrica. Non mettere al primo posto il lavoro significa per una società perdere la modernità.

Eppure ci sarebbero le condizioni per vivere bene?
Viviamo in un’epoca paradossale. Si produce così tanta ricchezza che si potrebbe vivere tutti meglio. Un’organizzazione diversa del lavoro consentirebbe di danneggiare meno l’ambiente, invece si continua a correre. Queste politiche di austerità porteranno al disastro e la crisi è destinata a diventare un fatto endemico. Noi, oggi, avremmo bisogno di lavorare quattro ore al giorno e lavorare tutti. Una società ricca e opulenta come la nostra potrebbe farlo benissimo. Mentre ci fanno sentire drammaticamente poveri.

Cambiando argomento, lei si è occupato molto di storia dell'agricoltura. La crisi può essere un'occasione, come in parte sta avvenendo, per il ritorno alla terra di molti giovani?
Stiamo vivendo in termini ecologici al di sopra delle nostre possibilità. Lasciare la città per la campagna non è solo una scelta di settore produttivo ma una scelta di vita.
Conosco molti ragazzi che hanno lasciato Roma, città dove insegno, per la campagna nei dintorni. Hanno cominciato a produrre beni agricoli. Uno dei problemi di oggi riguardo all'ambiente è stato l'abbandono delle colline interne: non c’è più la mezzadria, non ci sono più i piccoli proprietari che curavano il territorio nel quale vivevano. I fenomeni naturali che si svolgono nell’Appennino non vengono filtrati dalla presenza e della manutenzione e quando ci sono intense piogge le alluvioni colpisco le zone costiere. Avremmo bisogno di riportare la popolazione delle aree interne. Quale migliore opportunità offerta dal ripristino dell’agricoltura? Noi abbiamo una biodiversità agricola incredibile che ci fa il paese più ricco d’Europa e potremmo produrre in collina una quantità straordinaria di frutti. Potremmo sviluppare forme diverse di distribuzione dei prodotti utilizzando i gruppi solidali d'acquisto e la filiera corta o a chilometro zero.
Potremmo incentivare delle forme di trasformazione straordinarie nel campo agroalimentare. Si possono creare piccoli distretti agroalimentari. I borghi possono creare nuove economie. Sarebbe necessario un po’ di impulso politico. Si può dire ai giovani di partecipare a un grande progetto di manutenzione. Le prospettive ci sono, ma noi abbiamo un ceto politico vecchio e non è soltanto una questione anagrafica. Renzi è più vecchio di D’Al ema.
Parlano di ambiente ma non sanno di cosa parlano. Non sanno nulla di quello che accade all’ambiente planetario. Vivono in un sopramondo autoreferenziale. Non sanno niente di agricoltura.

Ultima domanda: la sinistra che fa in questi tempi di burrasca?
Io penso che sia possibile una sinistra diversa. La sinistra ufficiale da segni di risveglio. Ma è la sinistra dei movimenti ad essere molto ricca di elementi culturali nuovi. Essa ha una visione non identitaria della sinistra. Si sforza di innovare. La sinistra che si è formata nelle lotte contro l’inceneritore e le discariche ha messo insieme tematiche storiche con le ragioni ambientali. Sono state proteste libere e spontanee affiancate dall’intervento di medici e biologi che hanno fornito nuovi strumenti. È nata una cultura che mette insieme saperi, partecipazione e democrazia. È la sinistra plurale nel nostro paese.

da Pubblico giornale

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