di Tiziana Barillà
Si scrive Cie, si legge carcere per chi non ha commesso reati. Doveva essere un fermo in attesa dell’espulsione, invece è detenzione. Così la questione immigrazione è diventata caso umanitario. Cancelli, telecamere di sorveglianza, celle con inferriate antievasione, agenti di sicurezza e forze di polizia che vigilano affinché nessuno degli ospiti si muova da lì. Benvenuti in un Cie. L’odissea dei Centri di identificazione ed espulsione – inizialmente chiamati Cpt - comincia nel 1998 con la legge Turco-Napolitano al fine di trattenere gli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno, nei casi in cui non sia possibile «eseguire con immediatezza l’espulsione».
A giustificare il “trattenimento” secondo il legislatore è la necessità di procedere «al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità», come recita l’art. 12. Mai fino ad allora l’ordinamento italiano aveva previsto la detenzione di individui se non a seguito di reati penali e della decisione di un giudice. Le leggi successive – la Bossi Fini del 2002 e il pacchetto sicurezza del 2009 voluto fortemente dall’allora ministro Maroni – hanno intrapreso un cammino legislativo sempre più repressivo. Irrigidendo gli ingressi alla frontiera, rendendo sempre più difficile la permanenza regolare sul territorio italiano e allungando «il tempo strettamente necessario» di permanenza nei Cie, da 2 a 18 mesi. Con la nuova virata repressiva, in Italia può entrare solo chi ha già un lavoro. Chi lo perde ha solo sei mesi (un anno con la riforma del lavoro del 2012) per trovarne un altro, pena la clandestinità. Un quadro normativo schizofrenico che da una parte genera clandestini e dall’altra introduce il reato penale di clandestinità, da scontare nelle carceri ordinarie, da 1 a 4 anni. Questa stretta sull’immigrazione ha ricevuto più di una bocciatura e una dichiarazioni di illegittimità da parte della Ue. Il 28 aprile 2011 la Corte di giustizia europea ha bacchettato l’Italia per il mancato recepimento della direttiva 115 del 2008, che avrebbe dovuto essere accolta entro il 24 dicembre 2010. Perché per il diritto comunitario la clandestinità non è punibile con il carcere. Eppure con l’aumento dei tempi di permanenza è stato compiuto l’ultimo passo per trasformare strutture nate come temporanee in luoghi di detenzione per cittadini stranieri che non hanno commesso alcun reato.
Clandestini uguale delinquenti
Gli stranieri “detenuti” perché privi di regolare permesso di soggiorno sono circa 11mila. Nel corso del 2011 sono ancora in 3mila a scontare la pena all’interno delle carceri ordinarie, il 22 per cento di loro a carico ha solo questo reato. Sono molti i giudici che stanno applicando correttamente la normativa europea, ma anche se liberassero fino all’ultimo dei 3mila detenuti clandestini “ordinari” rimarrebbe irrisolta la questione dei Cie. Sono migliaia, quasi 8mila nel 2011, gli internati in questi centri e scontano una pena detentiva che può durare fino a 18 mesi. Le strutture in funzione sono 15: 12 permanenti e 3 provvisorie, create a seguito degli avvenimenti politici e dei conflitti dell’Africa del Nord che il ministero ha già dichiarato di voler rendere utilizzabili in via definitiva. A queste si aggiungono 3 centri momentaneamente chiusi. Sono edifici costruiti ex novo oppure convertiti per l’uso: ex caserme, fabbriche dismesse, ex centri di accoglienza, ex ospizi. A gestirli sono Croce rossa italiana, confraternita delle Misericordie d’Italia, cooperative del privato sociale. Il business è mediamente di 50 euro al giorno per migrante trattenuto.
Di emergenza in emergenza
Cercando su internet la parola “Cie” si trova una lunga serie di denunce, reportage, notizie feroci su quanto accade all’interno di queste strutture. Da Trapani a Torino, da Lampedusa a Roma, si susseguono quotidianamente rivolte, incendi, tentativi di fuga. Le ragioni per cui molte organizzazioni umanitarie chiedono l’immediata chiusura di questi centri detentivi sono di natura economica, legislativa, di inefficacia del sistema, di ordine pubblico. Vale la pena soffermarsi sulla violazione dei diritti umani. È ormai evidente che l’emergenza immigrazione, che l’ordinamento intendeva superare introducendo queste strutture, si è di fatto trasformata in emergenza umanitaria. Giornalisti e Ong hanno stilato per ognuno di questi centri fiumi di denunce e inchieste che documentano le condizioni disumane a cui sono costretti gli internati. Qui non si rispettano neppure i parametri vigenti per gli istituti penitenziari. Nessun contatto con l’esterno, bagni senza porte, camerate anguste e sovraffollate. E le conseguenze sui trattenuti si fanno sempre più morbose: abuso di psicofarmaci, alto tasso di fenomeni di autolesionismo, tentativi disperati di fuga. Una situazione così grave che per i Cie bisognerebbe «introdurre il reato di tortura», ha detto il presidente della Caritas Roberto Davanzo: «Diciotto mesi vissuti lì dentro sono alienanti, annichiliscono le persone e fanno perdere la percezione della propria identità». Finora, in Italia, nessuna sentenza ha riconosciuto che queste strutture sono divenute, di fatto, carceri extra ordinem. Il 20 gennaio 2011 gli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci dell’associazione Class action procedimentale hanno presentato al tribunale di Bari un ricorso d’urgenza per l’immediata chiusura del Cie di quella città. Il giudice ha trattenuto in decisione l’istanza: la sentenza è ormai vicina. E se il ricorso dovesse essere accolto potrebbe avere un effetto domino sugli altri centri d’Italia, diventando il precedente che mette in discussione l’intero sistema Cie.
Fortezza Europa
Centri come questi non hanno il marchio esclusivo del made in Italy. I campi di detenzione per migranti in Europa e nei Paesi mediterranei sono passati dai 324 del 2000 ai 421 del 2011, per un totale di circa 40mila internati. Muri dentro i muri, che si accompagnano a politiche migratorie sempre più repressive col solo scopo di espellere e rimpatriare. Mentre aumentano i tempi di permanenza, quindi di detenzione, e continua a diminuire la visibilità di ciò che accade dentro quei recinti. È la vecchia Europa che chiude porte e finestre ai flussi migratori. Sono passati secoli da quando gli schiavi venivano portati via dall’Africa in catene, oggi si fa di tutto per rispedirceli. Ma le catene restano.