120801chiarantedi Rossana Rossanda

Quel che è più triste dell'invecchiare è il perdere gli amici d'una vita. Quelli un poco più anziani di me se ne sono in gran parte andati, e anche diversi più giovani. Fra essi era Giuseppe Chiarante, Beppe, dal bel viso sereno e la voce tranquilla; lo conoscevo da non so quanto, più di mezzo secolo e abbiamo a lungo lavorato insieme, oltre che spartire le corse fuori porta, quando eravamo giovani e vispi settentrionali nella dorata Roma. Era l'amico e sodale di Lucio Magri, i due poco più che ragazzi della sinistra cattolica di Bergamo, negli anni '50 la città più inquieta della enorme Democrazia cristiana. Erano una fronda, facevano insieme "il ribelle e il conformista", avevano finito con l'iscriversi al Pci, assieme ai grandi, i deputati Mario Melloni, Fortebraccio, e Ugo Bartesaghi. Non erano soli, altri ne condividevano molte idee senza però fare il salto. E non potevano essere più diversi nel carattere: quanto Lucio era prometeico, asseverativo, ostinato, tanto Beppe era prudente, pur nell'autonomia delle scelte, dialogante, aperto anche al dubbio. Lucio aveva le qualità del capo, Beppe quelle del saggio. Negli anni '60, quando fui chiamata a Roma per dirigere la sezione culturale in via Botteghe Oscure, Beppe ne fu incaricato come me e con me rimase finché fui allontanata, prezioso nel lavoro e nei rapporti, coltissimo, leale.

Dei '60 condividemmo le speranze, cui il partito credeva di meno. Non so quanto contasse in lui l'essere cattolico, il suo riserbo non mi permetteva domande, ma la questione fra comunisti e cattolici gli stava molto a cuore, alimentata da quel Concilio Vaticano II che sembrò aprire tutte le strade e che i pontefici successivi a Giovanni XXIII chiusero, lentamente, forse senza una precisa intenzione Montini, con una accelerazione Karol Woytjla e non senza brutalità Ratzinger. L'incontro fra le due culture non doveva essere quello fra Dc e Pci, ma proprio fra una ispirazione di fondo che parve privilegiare i valori invece che i consumi, i "fondamentali" invece che le manovre. Ma anche una comune avversione a quello che il Pci chiamava, con la scusa di Gramsci, economicismo, in chiunque si occupava di più del capitale - la famosa struttura - che delle vicende politiche, l'altrettanto famosa sovrastruttura. Su questo d'altronde Enrico Berlinguer avrebbe tentato negli anni '70 quel compromesso storico che non funzionò. Nei '70 il Pci era già meno comunista e la Dc meno cristiana di quanto fossero venti anni prima. Alla commissione culturale facemmo due convegni nei quali l'apporto di Chiarante fu decisivo: uno sulla famiglia, che contribuì alla fama di eterodossia che presto ci avvolse - eravamo antifamilisti e anticlericali - per cui Nilde Jotti e Emilio Sereni ci criticarono assai, e uno sulla scuola, sulla scia di quel Convegno sulle tendenze del capitalismo italiano che era stato organizzato dall'Istituto Gramsci nel 1962 e segna una prima linea, se non di rottura, di divisione nell'analisi che il partito faceva sulla situazione. Pur pensando in gran parte come noi, Chiarante non ci seguì nella vicenda del manifesto: e non per mancanza di coraggio ma per la persuasione che non sarebbe bastata una forza minoritaria a produrre in Italia un cambiamento. La sua posizione fu dunque non poco scomoda, perché restò nel Pci ma votando, assieme a pochi altri, contro la nostra radiazione. E del Pci seguì le sorti agitate, alleandosi con la mozione del "no" sulla svolta, negli anni turbolenti che seguirono l'89. Sperò anche lui in una presa di posizione fondamentale che si sarebbe dovuta prendere alla riunione di Arco e non fu presa. Da allora il Pci venne via via perdendo molti compagni, non occhettiani né dalemiani, ma neppure in consonanza con Rifondazione. Con Aldo Tortorella salvò dall'estinzione Critica marxista, che ha diretto assieme a lui assieme alla Associazione per il rinnovamento della sinistra, che opera tuttora cercando di riunificarne gli spezzoni non su proposte politiche estemporanee a breve, ma su un filone culturale ed etico, per la cui mancanza il Pci e poi il Pds avrebbero cessato di esistere. La confusione che seguiva nell'ex Pci ad ogni cambiamento di nome, impedì al partito di compiere ogni sforzo per trattenere loro, ma prima Ingrao, poi Bertinotti, e poi altri ancora, senza rendersi conto che stava perdendo l'essenziale del suo patrimonio politico ed umano.
Quando decidemmo come manifesto di riprendere una nuova serie del mensile sul quale eravamo nati, Chiarante lavorò con noi. E parallelamente scriveva, oltre che su Critica marxista, i tre volumi di storia del Pci (La fine del Pci. Dall'alternativa democratica di Berlinguer all'ultimo Congresso 1979-1991, del 2009, Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico 1958-1975 del 2007 e Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta del 2006), tutti pubblicati dall'editore Carocci, che sono una miniera di dati. Nel confronto con Il sarto di Ulm di Lucio Magri si vede la differenza dei caratteri: Magri è sempre sui limiti di quel che il Pci avrebbe potuto fare, Chiarante si attiene a una documentazione e testimonianza niente affatto asettica, appena un po' meno spietata. Oltre a questo, Beppe sperò a lungo come senatore che fosse perseguibile una difesa coerente del patrimonio culturale del paese, preceduto dalla compagna della sua esistenza, Sara Staccioli. Li vedevo assieme anche alle grandi esposizioni di Parigi, finché le condizioni di salute gli permisero di vedere: la perdita della vista fu, fra i mali che lo hanno assalito da anni, quello che lo tormentava di più. L'ho visto per l'ultima volta alcuni mesi fa, con l'indomita Sara che lo portava a un concerto all'Auditorium; era come sempre affettuoso ma stanco, molto.
Addio, caro Beppe, compagno ed amico. Il mio universo non è più lo stesso, ne guardo l'orizzonte e troppe sono le assenze.

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