121026valientea cura di Alessio Arena
Per quelli che, come chi scrive, conoscono e frequentano Madrid da anni, il cambiamento degli equilibri sociali e politici prodotto dalla violenza con cui la crisi economica si è abbattuta sulla Spagna è del tutto evidente.
La città appare ancora ben curata, efficiente, e questo in ragione della posizione privilegiata che essa occupa come capitale dello Stato e dei benefici che le comporta l’essere al centro dell’organizzazione politica ed economica iberica. Tuttavia, sotto l’apparenza placida della normalità, le stridenti, imploranti contraddizioni prodotte dalla disoccupazione record, dalle crescenti politiche di tagli, dall’estendersi delle difficoltà di elementare sopravvivenza a settori sociali che fino a qualche anno fa si ritenevano posti al sicuro dalla fallace crescita economica indotta dalla speculazione finanziaria e immobiliare e di cui il socialista Zapatero si era fatto volto rappresentativo, capace di sedurre e affascinare profondamente la vacua, superficiale sinistra non solo riformista nostrana, conferiscono alla città un’apparenza incongrua, inquietante.

Quasi l’imminenza del manifestarsi del crollo impregnasse l’aria e deformasse la percezione delle cose in modo angoscioso, surreale.
Incontriamo Mauricio Valiente Ots, militante del Partito comunista di Spagna e deputato di Izquierda Unida, la coalizione di sinistra di cui il PCE fa parte, presso l’Assemblea di Madrid, il parlamento della regione della capitale spagnola, nella sede del gruppo parlamentare. Nel suo ufficio, un enorme ritratto di Lenin ci scruta con severa attenzione per tutto il lasso di tempo occupato dalla nostra conversazione. Una conversazione ricca di spunti di riflessione per noi italiani, per la quale ringraziamo il compagno Valiente e che proponiamo con convinzione all’attenzione dei nostri lettori.

Si parla insistentemente dell’imminente fallimento di alcuni dei maggiori istituti di credito spagnoli. Qual è la situazione? Come si è prodotta?
È la conseguenza di politiche pubbliche e di un ambiente privato che hanno propiziato la speculazione. Durante molti anni, come conseguenza della scelta neoliberista, si sono privatizzati terreni pubblici, si è incentivata l’edilizia come attività economica principale e questo ha permesso l’arricchimento di settori legati all’edilizia stessa, alle banche, alle immobiliari, generando una bolla speculativa che infine è esplosa, producendo gli effetti noti. La causa risiede in un modello di crescita fittizio che fondamentalmente era orientato all’arricchimento di gruppi e persone e non a rispondere alle necessità sociali, perché in parallelo a questo boom dell’edilizia si è avuto un regresso nel diritto alla casa, nei diritti sociali. Dopo molti anni questo processo speculativo è entrato in crisi: alla discesa dei prezzi degli alloggi, i crediti hanno perso le garanzie su cui poggiavano, non valendo abbastanza gli immobili, e questo si è tradotto in un grave collasso strutturale. Naturalmente ciò si è legato alle attività della finanza internazionale, ma l’origine sta in questo modello economico e politico.

Che caratteristiche presenta l’economia produttiva spagnola? E quella di Madrid?
Con l’entrata della Spagna nell’Unione Europea si è registrata la tendenza a privilegiare il settore dei servizi – in primo luogo il turismo -, accompagnato da alcuni settori dell’economia primaria tradizionalmente importanti in Spagna, nel campo dell’agricoltura. Con la formale e informale divisione del lavoro nell’UE si è avuto un processo di riconversione industriale con lo smantellamento accelerato dei settori tradizionali dell’industria, della cantieristica navale, dell’estrazione mineraria e della metallurgia.

In questo contesto è sorto il modello del ladrocinio legato alla speculazione immobiliare. In conseguenza della domanda, nelle zone costiere di ampio afflusso turistico si è avuta una colata di cemento che è tra le radici della crisi attuale. Madrid è abbastanza paradigmatica di questo modello: è una regione con un forte livello di consumo, una delle più ricche di Spagna, anche grazie al fatto che vi si concentrano le sedi delle grandi compagnie, i centri amministrativi, con la conseguenza di un volume di attività economica piuttosto elevato. Naturalmente in questo contesto il modello del ladrocinio è entrato in pieno, investendo la realtà locale in modo, appunto paradigmatico.

La Spagna ha raggiunto livelli record di disoccupazione, con una media nazionale del 25% della forza lavoro complessiva priva d’impiego. Come si è prodotta l’emergenza?
Storicamente la Spagna ha sempre avuto uno dei tassi di disoccupazione più alti. Anche negli anni 2000, quando si è avuto l’apogeo della bolla speculativa immobiliare, la Spagna era comunque uno dei paesi con più disoccupazione di tutta l’UE, con anche l’afflusso di molta mano d’opera straniera.

L’impatto della crisi ha avuto come conseguenza un’esplosione del livello di disoccupazione in tutto il paese. In primo luogo per il collasso dell’edilizia, certamente: tutte le imprese del settore hanno avuto un crollo drastico. Poi le politiche di tagli e rigore hanno prodotto un effetto di disincentivazione dell’attività economica e di licenziamenti nell’amministrazione pubblica, colpendo anche le imprese che lavoravano con essa.

In tutto questo le riforme ispirate al rigore sono state un passaggio fondamentale per l’aumento della disoccupazione, in un quadro in cui l’egemonia neoliberista ha spinto tanto il governo socialista che l’attuale governo di destra a varare riforme per rendere più semplici i licenziamenti. Risultato: da una situazione di partenza drammatica si è giunti a un risultato finale insostenibile.

Quali caratteri fondamentali presenta l’azione di governo dell’esecutivo del Partito Popolare guidato da Mariano Rajoy?
È un governo che si pone in continuità con gli assi fondamentali della politica economica dell’esecutivo precedente, che d’altra parte sono direttrici che provengono dall’UE. Ma dentro questa continuità si assiste a un’acutizzazione, a una radicalizzazione delle misure già assunte dal governo Zapatero. Non si può quindi dire che ci sia una gran rottura, ma si può dire che sia caduta la maschera, con l’attacco ai diritti del lavoro, alla contrattazione collettiva, i tagli agli enti locali e l’attacco a conquiste sociali basilari. Dentro la condivisione del modello neoliberista, siamo dunque in presenza della sua versione più estrema.

Nel territorio di Madrid in particolare, come si manifesta la crisi?
Madrid è una grande città e in più è la capitale, dunque mantiene un livello di attività superiore che nel resto dello Stato. Si può prendere a esempio l’Estremadura, una regione periferica in cui si possono vedere forme estreme di crisi che a Madrid non si vedono. In ogni caso si vedono chiari i caratteri della crisi.

In primo luogo con la recessione, il calo dell’attività economica che produce un effetto domino: cala l’attività economica, in particolare nell’edilizia, dunque ci sono meno introiti fiscali per le amministrazioni pubbliche, le quali quindi applicano tagli e abbassano il livello degli investimenti, quindi ci sono meno affari per le imprese private, in conseguenza meno occupazione, in un circolo vizioso che a Madrid assume forme meno drammatiche in virtù della concentrazione e del potere delle amministrazioni che vi hanno sede. Dunque non vi si manifestano forme estreme, ma gli effetti sono chiari e visibili.

Una seconda conseguenza è la crescita della povertà e dei livelli di emarginazione. Questo perché se al contrario delle regioni periferiche quella di Madrid è una comunità forte, in quelle regioni per converso la solidarietà familiare sta tamponando la crisi molto più che in questa grande città, dove il livello di abbandono d’interi settori della popolazione si fa sempre più preoccupante, perché le reti familiari non funzionano nello stesso modo che nelle piccole località. In questo siamo a una situazione limite. La rete assistenziale pubblica è completamente smantellata e fino ad ora sono state organizzazioni come Caritas o la Croce Rossa a sostenere il peso dell’assistenza basilare alla popolazione. Ma davvero si tratta di una situazione estrema quella che vive la nostra comunità.

In terzo luogo si sta assistendo a una esplosione di scontento molto poco organizzata e non incanalata.
Molta attenzione hanno destato, all’estero, gli importanti movimenti di massa sviluppatisi nel vostro paese negli ultimi anni, dalle lotte sindacali agli Indignados. Come si presentano questi movimenti?

C’è, come dicevo, molto scontento non sufficientemente incanalato e organizzato. Certamente i sindacati hanno mantenuto una mobilitazione continua: si sono già avuti scioperi generali tanto contro il governo socialista che contro il governo del Partito Popolare, ma il grave problema è che i sindacati sono in grado di organizzare il malessere nelle grandi imprese e nella pubblica amministrazione. Non vanno più in là.

Poi ci sono stati movimenti che sono emersi con molta forza, come il movimento del 15-M [gli Indignados, NdR], che credo abbia superato tutte le esperienze di mobilitazione vissute fino ad ora, ma che ha come limite proprio la sua natura: quella di un movimento tanto ampio, tanto spontaneo, che da ciò trae la sua ricchezza, ma che fatica a mantenere continuativamente una forte mobilitazione con contenuti chiari. In questo momento c’è un processo di convergenza, che di certo si esprimerà pienamente durante l’autunno,  ma credo che comunque non esista ancora un canale, un’alternativa chiara alla situazione che viviamo.

Il movimento degli Indignados, appunto, ha fatto molto parlare di sé, in Italia. Si è anche avuto un tentativo, non riuscito, di svilupparlo nel nostro paese. Quali ne sono le radici? Si tratta di un movimento ancora vitale?
È un movimento che andava formandosi da tempo, preparato da gruppi che soffrivano la crisi e che lottavano contro di essa. Nel contesto dell’indebolimento dei discorsi politici tradizionali, ciò ha dato luogo a un movimento di massa. È un movimento di massa che supera tutte le previsioni e che si è imposto come un fatto politico di primaria importanza. Con le sue debolezze: non disporre di organizzazione fa si che il movimento abbia difficoltà a pianificare la sua azione. In ogni caso il 15-M continua ad essere, in questo momento, un punto di riferimento per la mobilitazione e credo si sbaglino coloro che pensano che la sua spinta sia esaurita.

Come militante comunista e membro di Izquierda Unida, il soggetto unitario in cui lavoriamo, sono convinto che la mobilitazione vada accompagnata con un progetto politico e credo si debba avanzare su questa linea, ma questo non m’impedisce di rendermi conto che in questo momento noi non siamo in grado d’incanalare la mobilitazione della gente che è scesa in piazza. Dobbiamo lavorare al processo di confluenza che costruisca l’alternativa che in questo momento non esiste. Il movimento 15-M continua a essere un referente per la mobilitazione, come anche, nei loro ambiti, i sindacati e altre organizzazioni.

In questo contesto, come si sviluppa l’azione del Partito comunista di Spagna e di Izquierda Unida?
Il PCE e IU in un primo momento hanno chiamato a lavorare per dare impulso a qualunque forma di mobilitazione popolare, in particolare il 15-M, rispettandone le caratteristiche. Non si tratta di un movimento tradizionale come quelli fino ad ora conosciuti, con piattaforme. È un movimento che parte dall’impegno personale e nel quale l’adesione a gruppi organizzati si lascia ai margini. Noi abbiamo rispettato lo sviluppo del movimento, pur insistendo sulla necessità di avanzare perché lo scontento si converta in alternativa. Lo scontento, lo scendere in piazza non basta: bisogna organizzarsi per cambiare lo stato di cose che non ci piace. Credo che l’esperienza di questi due anni di lotta sia positiva e che la maggioranza del movimento 15-M si sia politicizzata, e che lo sforzo di apertura fatto dal PCE e da IU stia dando frutti.

Noi abbiamo proposto un processo di convergenza sociale per costruire l’alternativa. Questo ci obbliga a essere molto flessibili per farci strumento utile e per non essere superati dalla realtà. Non è facile, ma è la scommessa che stiamo facendo e siamo convinti della sua giustezza. Non è facile anzitutto per le nostre diffidenze interne nei confronti di un movimento spesso molto ingenuo in alcune sue espressioni, percorso da tentazioni apolitiche o antipolitiche, ma si è dimostrato che con un dibattito serio certe posizioni infantili si possono superare.

D’altra parte, tanto il PCE come IU non sono del tutto immuni dalla capacità di corruzione del sistema, dalla dinamica istituzionale di svuotamento della politica, e questa è una critica che non dobbiamo smettere di esercitare come parte del nostro impegno e del nostro progetto rivoluzionario.
Una maggioranza della gente che si è mobilitata è sensibile alle istanze della sinistra tradizionale, che sia politica o sindacale, la quale deve vigilare per non farsi invischiare nel gioco della politica istituzionale. Questa fase ci può servire come momento di depurazione e perfezionamento di una organizzazione che vuole cambiare la società. Un’organizzazione rivoluzionaria deve essere capace di apprendere con la maggioranza sociale, senza la quale nessun cambiamento è possibile.

Sul versante dei consumi, quali forme concrete di resistenza sono organizzate dalla sinistra contro gli effetti della crisi e i tagli?
La maggioranza delle iniziative in questo senso vanno in direzione del rafforzamento dell’autoconsumo e del cooperativismo come forme di resistenza alla crisi. In realtà manca una politica coordinata con iniziative a riguardo, e la maggioranza di esse si sviluppano a livello locale su impulso di militanti del PCE o di IU molto impegnati su questo fronte.

Le amministrazioni locali riescono a intervenire con forme di assistenza e una loro politica dei prezzi?
Fondamentalmente i governi locali possono intervenire dove hanno sviluppato per tempo politiche di autodifesa e di garanzia dei diritti. Il grave problema è che dentro il modello economico che si sta imponendo ci sono due grandi sacrificati: il primo sono le organizzazioni sindacali e il movimento operaio, per cui in sostanza si è messo fine alla contrattazione collettiva, con il conseguente indebolimento di quelle organizzazioni; il secondo sono le autonomie locali, che sono oggi vittime di un vero e proprio strangolamento economico.

Iniziative in questo senso sono molto difficili perché la maggioranza delle amministrazioni locali sono in condizione di non poter quasi più pagare i propri conti, cosa che rende molto difficile delineare un’alternativa chiara, tanto più da quando il livello di deficit è limitato costituzionalmente. Si è prodotta una situazione d’emergenza  nella quale gli strumenti tradizionali di resistenza non hanno margini operativi.

Questo fa parte di un dibattito che dobbiamo affrontare: che senso ha partecipare alle istituzioni rappresentative quando non è possibile sviluppare politiche alternative perché la legge restringe le possibilità d’investimento pubblico? Ci porremo questa questione nella prossima assemblea, che si terrà nel mese di dicembre.

Negli ultimi anni il PCE e IU hanno rafforzato molto la centralità del loro profilo repubblicano. Che ruolo attribuiscono i comunisti spagnoli alla battaglia per la III Repubblica nel contesto creato dalla crisi?
Per noi è un elemento fondamentale. Abbiamo aperto il dibattito per un processo costituente complessivo per la Spagna, a partire dal modello di Stato, che noi vogliamo democratico, repubblicano e federale. Certamente a livello sociale non è questa la preoccupazione maggiore: la gente si preoccupa della disoccupazione, dell’emarginazione sociale, del taglio dei diritti. Ma noi poniamo il tema in primo piano perché pensiamo che la soluzione della crisi non risieda semplicemente in un cambio di governo, ma in un cambiamento di sistema che interessi anche il modello di Stato. Per questo lottiamo per aprire un processo costituente e alziamo la bandiera repubblicana come un elemento di rottura che, seppure non di massa in questo momento,  è entrato nel dibattito pubblico.

L’Italia e la Spagna hanno storie diverse. Da voi la Costituzione si è scritta nel contesto creato dalla sconfitta del fascismo, mentre la nostra Costituzione è frutto di un compromesso con settori della dittatura alla fine degli anni ’70. Dunque il confronto non è facile. Durante la transizione il ruolo del PCE è stato molto discutibile e un dibattito è in corso a questo proposito. La nostra Costituzione contiene legami con meccanismi imposti dalla dittatura, uno dei quali è la monarchia. Poi certo non si è avuta una situazione rivoluzionaria e i potenti non si sono dovuti preoccupare. Però in questo momento la questione torna a porsi come d’attualità.

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