121002franciaDai camini non uscirà più il fumo e dai cancelli non entreranno più gli operai. Dopo sette mesi di battaglia, gli altiforni di Florange, in Francia, hanno chiuso i battenti. Il pressing del nuovo governo socialista non è servito. Alla fine ArcelorMittal, numero uno indiano della siderurgia mondiale, ha decretato la morte (annunciata) dell’impianto.
60 GIORNI DI TEMPO. Resta la debole speranza di trovare un compratore a costo zero che possa rilanciare lo stabilimento: la Mittal ha concesso al ministro del Rilancio economico, Arnaud Montebourg, ancora 60 giorni di tempo per vendere, a patto che non si tratti di un diretto concorrente.
La missione è salvare il cuore d’acciaio dell’Europa, simbolo e orgoglio del Vecchio continente.

Perché se concretamente il dramma di Florange non è diverso da quelli consumati a Termini Imerese o nel Sulcis sardo, almeno simbolicamente la crisi della cittadina di 11 mila abitanti al confine con il Lussemburgo ha un impatto maggiore.
COLPO AL CUORE DELL’UE. Con l’Alsazia, la Lorena è stata il campo su cui l’Europa si è divisa e insanguinata. Le due regioni sono passate di mano dalla Francia alla Germania e dalla Germania alla Francia per quattro volte in meno di un secolo. E, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sono divenute il simbolo della nuova Europa pacificata. Luogo di elezione delle istituzioni comunitarie - il parlamento Ue, non a caso, ha sede a Strasburgo -, il tessuto industriale della zona ha fatto da fondamenta a quella Comunità economica del carbone e dell’acciaio (Ceca) anticipatrice dell’Unione europea. Ora con le tute blu della Lorena a braccia conserte, l’intera storia industriale del continente sembra ripiegarsi su se stessa.
La delusione della classe operaia
Lavoratori della Cgt, il più forte sindacato francese, protestano di fronte al parlamento Ue contro la chiusura degli impianti.
Non a caso in campagna elettorale tutti sono passati da qui: Nicolas Sarkozy, François Hollande e Jean Luc Mélenchon, i verdi e gli anti capitalisti. Ma paradossalmente chi ha fatto incetta di voti, la nazionalista Marine Le Pen, non si è fermata. Era convinta di trovare la solita maggioranza di operai rossi e internazionalisti. La crisi, invece, ha cambiato molte cose.
Appena il gruppo ArcelorMittal annunciò la chiusura, François Hollande, allora candidato all’Eliseo per il partito socialista, promise una legge per assicurare la sopravvivenza delle acciaierie. Il 24 febbraio 2012, la sua proposta veniva accolta dai sindacati tra gli applausi.
UNA LEGGE AD INDUSTRIAM. Peccato che il tempo sia passato in fretta e, tra un governo da formare, l’emergenza della crisi del debito e gli incontri con i capi di Stato Ue, la legge non ci sia ancora. I socialisti hanno la proposta pronta: il disegno di legge dovrebbe imporre a un’azienda che vuole chiudere uno stabilimento la trasmissione coatta a un altro capitano d’industria che si dica disponibile a proseguire la produzione: insomma, una legge ad industriam. Considerando la lunghezza dell’iter legislativo, però, l’approvazione è attesa per la fine dell’anno.
Così, stretto nella morsa della de-industrializzazione, per la seconda volta in pochi mesi, il neo eletto presidente francese rischia di deludere la classe operaia.
IL CASO PEUGEOT CITROËN. È già successo con il gruppo Psa Peugeot-Citroën. La casa automobilistica ha presentato un piano di razionalizzazione da 8 mila licenziamenti. Compresa la chiusura dello stabilimento di Aulnay sous Bois: 3 mila dipendenti alle porte di Parigi.
In un primo momento, l’Eliseo e il primo ministro Jean Marc Ayrault hanno fatto la voce grossa. E richiamato subito a palazzo il presidente della società, Philippe Varin. Propositivo, l’esecutivo ha anche varato in tutta fretta un piano di incentivi a favore dei veicoli elettrici e investimenti per 120 milioni a sostegno delle piccole e medie imprese dell’indotto auto.
Con il proseguire dei negoziati, però, l’imperativo imposto all’azienda si è trasformato semplicemente nel reinserimento dei lavoratori. Insomma, anche Hollande, tra le grane del rigore e i diktat della grande industria, sta scoprendo la dura realtà.
Dal 2007 oltre 70 mila posti persi all’anno.
La manifattura francese sembra vivere una crisi strutturale. Il picco della crisi si registra nel mercato automobilistico: non solo Peugeot, ma anche Renault ha recentemente dichiarato che potrebbe tagliare rami d’azienda e Ford ha deciso di riconvertire il sito di Blanquefort nel Sud Ovest del Paese. Ma negli ultimi cinque anni di presidenza Sarkozy la deindustrializzazione è stata trasversale e si sono persi 355 mila posti di lavoro.
Oltre 70 mila all’anno, rispetto a una media di 13.500 l’anno registrata tra il 1995 e il 2001. La Francia, Paese Ue con il maggior numero di imprese inserite nell’indice Fortune 500, sembra essersi seduta sugli allori. Entrata nel mondo della finanza, ha smesso di investire in una strategia industriale di lungo periodo. E lo strappo sembra essersi consumato proprio con l’introduzione della moneta unica nel 2002.
IL 47% DELLE AZIENDE NON INNOVA. La vulgata incolpa le delocalizzazioni. Ma sarebbe riduttivo e troppo comodo fermarsi qui. Anzi. La Germania ha delocalizzato molto di più e la sua bilancia commerciale è comunque in buona salute.
Parigi ha puntato su settori ad alto costo di produzione, i grandi campioni dell’auto e della metallurgia. Ma non ha capito abbastanza in fretta la tendenza alla concentrazione globale del settore.
Intanto in dieci anni il costo del lavoro è aumentato del 31%, mentre in Germania la crescita si è fermata al 19. Ed è mancata questa volta la spinta all’innovazione. La banca di investimento Natixis ha calcolato che tra il 2006 e il 2008 ben il 47% delle industrie francesi ha smesso di innovare. La Francia sembra d’un colpo aver perso l’appuntamento con la storia. E Florange ne è il triste simbolo.

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